Chiunque abbia immediatamente preso posizione in merito al duello Apple-Vestager è un completo idiota. Una volta superato lo shock per il morso da 13 miliardi alla mela più famosa del mondo, è necessaria una minima riflessione su cosa sia effettivamente giusto e per chi. E non è affatto scontato. Ai più verrà spontaneo simpatizzare per il padre adottivo dell’iPhone e condannare l’austerità dell’algida commissaria danese, altri si scaglieranno contro lo strapotere delle multinazionali e invocheranno equità e uguaglianza di trattamento. La realtà è che ognuno ha le proprie ragioni e, stavolta, entrambe hanno senso. Agevoliamone la parafrasi.
Siamo Apple. Siamo in Irlanda, precisamente a Cork, dal 1980. E ci piace un sacco, con tutti quei prati e gli elfi e la birra e gli U2. Loro sono un po’ in crisi ma c’è del talento. Partiamo con 60 dipendenti e in 35 anni arriviamo a 5500 (senza contare l’indotto). Creiamo oltre 1,5 milioni di posti di lavoro in tutta Europa, siamo i primi contribuenti irlandesi, statunitensi e quindi mondiali. Nel 1991 ce la passiamo così così. Steve Jobs ci ha lasciato da sei anni e sa dio quando tornerà, c’è John Sculley come CEO e la nostra quota di mercato piange, Microsoft domina pressoché incontrastata. A parte questo però i nostri numeri viaggiano, al punto che ci viene in mente di fare due chiacchiere con il governo. E gli facciamo notare che nel 1989 abbiamo fatturato 751 milioni di dollari, prodotto un utile netto di 270 e assunto più di 1500 loro abitanti. Nessun’altra società ha fatto tanto, siamo vitali per il loro paese e quindi che ci vengano incontro. L’emerald island accetta e sembra anche piuttosto entusiasta. Cosa accetta? Di tassarci solo una minima parte degli utili (e comunque al 12.5%, altro che il 35% dello Zio Sam), un’altra parte la versiamo alla nostra controllante Apple, Inc. negli States per le spese di ricerca e sviluppo e la stragrande maggioranza la imputiamo alla “sede centrale” che in realtà non esiste proprio tantissimo quindi top. Siamo d’accordo, è tutto assolutamente in linea con la legislazione irlandese, con la sua sovranità fiscale e con il principio di tassazione degli utili laddove sono prodotti. Va tutto bene per un sacco di anni, nel 2007 rinforziamo l’accordo con l’Irlanda e ci espandiamo tanto, così tanto che i nostri utili decollano, del tipo che nel 2015 il profitto tocca i 54 miliardi. Il che è bellissimo ma attira l’attenzione di un sacco di gente, in particolare di una tizia dalle fattezze androgine che due giorni fa decide improvvisamente che no, l’accordo con l’Irlanda non va affatto bene. E che dobbiamo restituire al governo un sacco di soldi, soldi che il governo nemmeno vuole, specificando che non gli dobbiamo un centesimo in più di quanto già versato. In pratica questa qui ignora e stravolge la normativa irlandese, se ne frega della sua sovranità, si pone quale autorità sovranazionale deliberante in materia fiscale e soprattutto applica retroattivamente delle tasse in virtù di una legge mai esistita. Siamo pazzi. A noi piace l’Irlanda, i prati, gli elfi, la birra e gli U2 e vogliamo continuare a investirci. E quasi sicuramente lo faremo, perché ricorreremo in appello e quasi sicuramente lo vinceremo. Quasi.