Quantificare solo economicamente l’ammontare, solitamente enorme, dei danni causati da fenomeni naturali inattesi come uragani, tormente e terremoti, è per forza di cose piuttosto limitativo. Lo è in quanto le condizioni di vita e gli insediamenti umani vengono stravolti, causando disordini sociali difficilmente rappresentabili dal valore di uno strumento di mercato.
L’ingegneria finanziaria tuttavia, branca di studi scientifico-economica che si propone di creare e combinare sempre nuovi strumenti finanziari al fine di permettere condizioni più favorevoli per chi li detiene e per chi opera nei mercati, ha sviluppato a partire dagli anni ’90 un nuovo prodotto che negli intenti dovrebbe aiutare le compagnie assicurative a limitare i danni. Danni causati, manco a dirlo, da tali straordinarie catastrofi naturali.
Non poteva che essere “catastrophe bonds” il nome di queste obbligazioni che rendono possibile sfruttare anche i disastri e il cui ammontare in circolazione si attesta intorno ai 4 miliardi di $ nell’ormai lontano 2007, continuando a crescere anno per anno. La funzione cui assolvono è di per sé piuttosto semplice, limitare almeno parzialmente i danni subiti dalle compagnie assicurative in giro per il mondo. Le quali, si sa, in seguito a eventi del genere sono sistematicamente chiamate a elargire importi molto salati a tutti i clienti assicurati. Lo sono al punto che per molte società questo implica, nei casi più estremi, il non riuscire a coprire la cifra con i premi riscossi, con conseguente fallimento.