Sono passati poco più di nove mesi dall’attacco terroristico avvenuto contro la sede del giornale satirico Charlie Hebdo, a Parigi. Quel maledetto sette gennaio 2015, quando i fratelli Kouachi entrarono armati al numero 10 di rue Nicolas-Appert, e fecero fuoco uccidendo 12 persone e ferendone altre 11. Lo sconcerto generale fu immediato, altrettanto il dibattito che venne a crearsi da lì a poco. Chi si schierava dalla parte della satira e chi invece, senza giustificare l’attentato, si limitava ad un poco velato “se la sono cercata”. La manifestazione avvenuta per le strade di Parigi qualche giorno dopo fu un evento di portata straordinaria, oltre due milioni di persone sfilarono nelle strade della capitale francese per esprimere la loro solidarietà alle vittime e ai loro familiari, innalzando cartelli inneggianti “Je Suis Charlie” e sostenendo a gran voce la libertà di satira.
Un attacco terroristico in grado di dare ancora più risonanza a Charlie Hebdo, in grado di unire sentimentalmente un’intera Nazione e non solo, di far vedere a quelli là che nessuno ha paura di loro, che nessuno ha intenzione di fermarsi. Queste erano le sensazioni che si raccoglievano in quei giorni, inni al coraggio e alla libertà, al non inginocchiarsi ma andare avanti a testa alta continuando la propria battaglia. Sembrava il copione di un film già scritto, i buoni che insieme vincono sui cattivi, il bene che trionfa sul male. E invece neanche un anno dopo la situazione sembra aver preso una piega dolorosa, tanto crudele quanto quel sette gennaio. La redazione di Charlie Hebdo rischia di rimanere senza vignettisti, gli ultimi rimasti si sono dimessi la settimana scorsa. Ma come? Non avevano vinto loro? Non avevano sconfitto i cattivi? No a quanto pare.
Che qualcosa non fosse più come prima in questo contesto era logico. I primi scricchiolii iniziarono a sentirsi nel luglio scorso, il nuovo direttore della rivista annunciò che non avrebbe più rappresentato Maometto nelle vignette. L’accusa di piegarsi al terrorismo fu immediata, le parole pronunciate dalla compagna di Stephane Charbonnier, assassinato durante l’attentato, furono: “Il trapianto che funziona peggio è il trapianto delle palle”. La signora non le mandò certo a dire. Uno dei collaboratori storici, Patrick Pelloux, medico e firma del giornale, ha deciso qualche giorno fa di terminare la collaborazione. Dalle sue parole, rilasciate a Vanity Fair, si può capire come il giorno dell’attentato abbia condizionato irrimediabilmente il suo pensiero e la sua forza di volontà: “Non sono più lo stesso, anzi, non so più chi sono. Ho visto tutti i miei amici con i proiettili in testa o nell’addome. Gli assassini volevano massacrare il sorriso. E’ stato un atto politico nazista”.
La figura che emerge è quella di una balena stesa sulla spiaggia, rimasta ferita mortalmente dagli attacchi di pescatori di frode, intenta a esalare il suo ultimo respiro. Le intenzioni a proseguire la battaglia sembrano ormai svanite nel nulla, eclissate sotto i colpi di fucile dei fratelli Kouachi. Riusciti nel loro intento, perché ormai quel “Je Suis Charlie” sembra essere trasformato in maniera indelebile in “J’etais Charlie”, non più sventolato come simbolo di coraggio e libertà, semmai pronunciato all’orecchio della persona seduta vicino, ben accorti che nessun altro riesca a sentirlo.