Il 7 aprile si sono aperte ufficialmente le elezioni indiane per scegliere i 543 parlamentari che andranno a sedersi nella Lok Sabha, la Camera del Popolo. Questa tornata elettorale sarà ricordata come la più grande della storia, visti gli 814 milioni di elettori ammessi al voto. Solo dal 16 maggio, data d’inizio del conteggio dei voti, si potrà capire se le impressioni che vedono favorito il Bjp di Narendra Modi saranno confermate. Gli avversari più accreditati sono Arvind Kejriwal, leader del “partito dell’uomo comune”, e Rahul Gandhi, del Partito del Congresso.
Il terreno di scontro è fondamentalmente quello economico e riguarda il tema della crescita, ferma al 5%. Guardato dal punto di vista occidentale il numero pare ragguardevole, ma per l’economia indiana rappresenta il minimo raggiunto negli ultimi 10 anni. La crescita superiore al 10% raggiunta in passato è una chimera, anche se il dato rientra in un calo riscontrato anche negli altri Paesi denominati BRICS (Brasile, Russia, India, Cina e Sudafrica). Il deprezzamento della moneta locale, la rupia, e l’aumento della spesa pubblica causato dalle politiche del partito di Gandhi pone delle domande chiare alle quali i candidati hanno risposto molto diversamente durante la campagna elettorale.
Da una parte Narendra Modi ha promesso politiche per far tornare a crescere vertiginosamente l’India riportando il tasso sopra il 7% grazie a liberalizzazioni, privatizzazioni e sgravi fiscali. La volontà è di trasferire sul piano nazionale il modo di governare impiegato nella regione del Gujarat, nell’India occidentale al confine con il Pakistan. Ridurre il peso del governo per lasciare più libere le energie del Paese è la priorità del Bjp.