Parafrasando Walter Lippmann, editorialista statunitense dell’Herald Tribune vincitore di due premi Pulitzer, se “al centro di ogni sistema sociale, politico ed economico v’è un ritratto della natura umana”, la concezione di come quest’ultima possa, in definitiva, essere dipinta determinerà le vite che conduciamo, le istituzioni che costruiamo, e la civiltà che creiamo. Durante il XVIII secolo, periodo in cui formalmente si data l’avvento del capitalismo moderno, sono emerse diverse correnti di pensiero riguardo alla natura dell’uomo. Tre modelli filosofici di riferimento possono essere identificati in merito.
Il primo, facente capo all’Illuminismo Francese, considerava la natura umana, seppur viziata, perfezionabile. Tale nozione, più famosamente esposta da Jean-Jacques Rousseau e da altri philosophes ‘illuminati’, ebbe una forte influenza sulle visioni utopiche e rivoluzionarie degli intellettuali socialisti della successiva generazione, come Robert Owen, Charles Fourier, e Henri de Saint-Simon. Il secondo filone di pensiero, ben rappresentato dai testi del XVII secolo di Thomas Hobbes e Bernard Mandeville, concepiva la natura umana come piuttosto l’opposto: inelastica, e inalterabile nella propria incapacità di conformarsi ad un modello sociale.
Mentre la terza rilevante rappresentazione della natura umana può essere riscontrata nel pensiero dei padri fondatori dell’America. “Se gli uomini fossero angeli”, scrive nel “Federalist Paper No. 51” James Madison, il quarto presidente USA e uno dei principali autori della Costituzione, “nessun governo sarebbe necessario”. Tuttavia Madison, riflettendo le visioni preponderanti anche nell’ideologia Cristiana, non credeva assolutamente che l’uomo potesse essere “un angelo”, ne tantomeno che questo potesse un giorno diventarlo. La natura umana è, seguendo qusta visione, piuttosto una combinazione di virtù e vizi, di nobiltà e corruzione. Le filosofie anglo-scozzesi di Adam Smith, David Hume e Francis Hutcheson, sono fondamentalmente in linea con quest’utlima interpretazione. Smith stesso non credeva minimamente nella perfezione della natura umana, considerando altrettanto assurda la possibilità di costruire istituzioni che potessero raggiungere la medesima perfezione.
Sia i padri fondatori americani, sia l’ideologia capitalistica concordano sull’idea che gli individui siano prevalentemente guidati dal proprio interesse personale e dal primitivo desiderio di migliorare le proprie condizioni di vita. “L’interesse personale”, come poi confermato anche da Smith, non è negativo di per se. Smith credeva, come assunto dalla teoria capitalista stessa, che il benessere sociale dipendesse dalla possibilità di lasciare ogni individuo ‘libero’ di perseguire il proprio interesse, “fintanto che questo non violasse la legge della giustizia”. Quando un individuo “mira soltanto al proprio guadagno”, scrive Smith (1) in uno dei suoi passaggi più famosi, “…egli è condotto da una mano invisibile a promuovere un fine che non entrava nelle sue intenzioni. Per la società non è un male che questo fine non entrasse nelle sue intenzioni. Perseguendo il proprio interesse, egli spesso promuove quello della società in modo più efficace di quando intende realmente promuoverlo.”
Una macchina perfetta, che riflette le naturali aspirazioni dell’uomo ed è capace di convertire il risultato di una pulsione individuale nel bene collettivo. Un meccanismo che neanche necessita di essere alimentato dall’intenzione per permettere il raggiungimento del benessere sociale. E chi non vi si metterebbe alla guida? Chi non ne sarebbe entusiasta? Chi non amerebbe un sistema che riconosce e perdona le imperfezioni insite nell’uomo? Al momento, tutto questo oro ideologico, intima riflessione della natura umana, sembra luccicare ben poco agli occhi dell’opinione pubblica.
Un recente articolo uscito sul Financial Times dimostra come la fede nelle istituzioni di mercato non sia mai stata così bassa. Almeno due terzi degli aventi diritto di voto, includendo la metà degli elettori conservatori, chiede un intervento governativo più duro nei confronti dei “big business” e del mondo finanziario, spinti dalla preoccupazione per l’eccessiva remunerazione dei manager, e per la perdita della componente etica in questi settori.
Preoccupazioni fondate quest’ultime. I mercati incoraggiano sempre di più un’attenzione maniacale sui guadagni finanziari a breve termine, la tolleranza delle disuguaglianze d’opportunità, ed un evidente disprezzo per il bene comune. Considerando l’assenza totale di un controllo di queste tendenze, non possiamo poi pretendere che il pubblico dimostri la propria fede nel capitalismo, per quanto questo ne possa riflettere le aspirazioni comuni, o la natura.
(1) Adam Smith, An Inquiry into the Nature and Causes of the Wealth of Nations, edito da Edwin Cannan (1904)