“Quello che vorrei dipingere è la luce del sole sulla parete di una casa.” Alle domande che amici, clienti e semplici osservatori gli rivolgevano ogni volta, quando finivano per trovarsi a contemplare le sue opere, Edward Hopper rispondeva così. Ambiguo, sfuggente, amava lasciare agli altri qualsiasi interpretazione psicologica, qualsiasi indagine emozionale: a lui bastava dipingere le case, e la luce che le colpiva violentemente, nelle terse, lunghissime giornate dell’estate americana.
Oppure, il suo occhio fotografico si soffermava su scenari notturni, illuminati da un neon o da un fascio di pulviscolo freddo, asettico; indugiava a svelare impietosamente i volti di uomini e donne accostati a un tavolo o a passeggio su un ponte, insieme e soli, vicini e immobili, incapaci di comunicare, tra loro e con noi.
Con la sua matita precisa e implacabile, partì dalle vedute parigine, sfumate e liriche, che tanto devono ai grandi dell’impressionismo francese, per approdare ai quadri degli Stati Uniti, nuova potenza mondiale, un paese dove le fabbriche erano le nuove cattedrali e le metropoli si allargavano come un’immensa macchia di petrolio. Eppure, restavano ancora là quelle case di assi bianche in mezzo a praterie sperdute, e quei fari su laghi fermi, grattacieli personali di un’artista che visse tra nostalgia e realtà, che tentò di cercare se stesso fotografando il mondo.
Proprio ad “Edward Hopper” è dedicata la mostra allestita a Bologna, nello storico Palazzo Fava, dal 25 marzo al 24 luglio 2016, prodotta e organizzata da Arthemisia Group, Fondazione Carisbo e Genus Bononiae, in collaborazione con il Comune di Bologna e il Whitney Museum of American Art di New York.
Attraverso 60 opere che ripercorrono l’intero arco di produzione dell’artista americano, uno dei più noti e celebrati di tutto il XX secolo, l’esposizione curata da Barbara Haskell e Luca Beatrice presenta una vasta gamma di lavori, dagli acquerelli ai disegni, dal periodo francese agli scorci cittadini degli anni 50 e 60, evocando tutti i grandi temi dell’arte hopperiana: la solitudine degli interni, le storie della provincia, le pompe di benzina, gli interni d’ufficio dei palazzi urbanizzati, tra donne fasciate in abiti scollati e uomini col cappello che compaiono in strade deserte, sorpresi dalla luce di un lampione o di una tavola calda.
Nei suoi capolavori, come Second Story Sunlight e South Carolina Morning, eccezionalmente in mostra insieme a molti altri, rivediamo le atmosfere che di lì a poco sarebbero diventate quelle del miglior cinema hollywoodiano, dai fotogrammi dell’Hitchcock di Psycho ai maghi del noir come Wilder, passando per i romanzi hard boiled di Raymond Chandler.
Un precursore, un narratore, colui che fu capace di cristallizzare l’attimo per tradurlo in eternità: Edward Hopper rappresentò la cultura americana, il suo spirito, i suoi incubi. Raffigurando gli uomini di allora restituisce l’immagine dell’umanità moderna, raccontando tutto senza mostrare nulla, se non l’ordinario.
La mostra a Palazzo Fava è un’occasione per percepire ciò che sta dietro e dentro i quadri, il non detto, l’inesplicabile nascosto dall’apparente normalità. Del resto, lo diceva lui stesso, che se avesse potuto dirlo a parole, non ci sarebbe stato alcun motivo per dipingere.