“Il Capitale Umano nella Rivoluzione Industriale”: Una Proxy dall’Età dei Lumi

“Il genere della moderna produzione industriale richiede una conoscenza della meccanica, nozioni di calcolo, grande destrezza nel lavoro, e la comprensione dei principi alla base dei mestieri. Una tale combinazione di competenze è stata raggiunta in questo periodo [XVIII secolo], in cui lo studio delle scienze s’è ampiamente diffuso, accompagnato da un’intima relazione tra sapienti e artigiani.”

In questo modo Jean-Antoine Chaptal, chimico e statista francese, dimostrava di aver riconosciuto, già nel 1819 in piena Rivoluzione Industriale, quale fosse una delle componenti fondamentali del processo di sviluppo economico: il capitale umano. Tuttavia, mentre esiste un’ampia letteratura che ne documenta l’importanza nelle moderne dinamiche di crescita – la scolarizzazione rimane tutt’oggi uno principali predittori del successo economico (1) e del reddito pro-capite (2) – il ruolo del capitale umano durante la prima fase di industrializzazione risulta marginale.

Nel 1855, il tasso di iscrizione alla scuola primaria in Gran Bretagna – culla della Rivoluzione Industriale – era solo l’11 percento (Flora, Kraus, and Pfenning, 1983). Un dato che suggerisce un’influenza minima dell’educazione sulla crescita economica. D’altra parte, la Scandinavia, che aveva già raggiunto la completa alfabetizzazione all’inizio del XIX secolo, rimaneva al tempo una delle regioni più povere d’Europa. Come può il capitale umano – una delle principali determinanti della crescita moderna – non aver influito nella rottura di quel meccanismo – la Trappola Malthusiana – che ha costretto alla stagnazione l’economia mondiale per millenni?