E’ passato nel giro di qualche mese dallo sfondo alla ribalta. Il reshoring, rilocalizzazione del processo produttivo, è diventato definitivamente un tema caldo anche in Italia. Così, i “capitani coraggiosi” che già da tempo hanno riportato la produzione nel Bel Paese, oggi possono fregiarsi di essere precursori di un fenomeno che viaggia spedito e in sella al quale sono definitivamente salite tutte le economie mature dell’occidente.
La questione appare assai interessante, se la si guarda dalla prospettiva italiana. Per una ragione in particolare. Le due fasi topiche del capitalismo occidentale, industrializzazione prima, e de-industrializzazione poi, hanno palesato una tendenza inoppugnabile che riguarda lo Stivale: il forte ritardo nell’assorbire i vari processi di trasformazione economica rispetto a Gran Bretagna, Germania o Francia. Un gap storico, che ha riproposto nel tempo la medesima scena: gli altri corrono, mutano, si adeguano; l’Italia, recalcitrante al cambiamento, insegue, arrancando.
All’alba di un potenziale terzo giro di giostra, alla fine del quale si potrebbe rendere manifesto un panorama economico “ibrido”, con il rientro di parte della produzione industriale nei Paesi di origine, l’Italia potrebbe invece scrollarsi di dosso ogni retaggio storico infausto. Perché il reshoring italiano è un fenomeno pionieristico e più diffuso di quanto possa apparire in superficie. Dal 1997, anno in cui sono stati registrati i primi dietrofront di aziende italiane che avevano delocalizzato nei Paesi con manodopera a bassa costo, si contano, in data 31 dicembre 2013, 97 aziende che hanno riportato almeno parte della produzione in Italia.