Secondo Beppe Severgnini “L’Italia è una Repubblica fondata sullo stage” ed è impossibile dargli torto.
Dell’esercito silenzioso dei 300.000 stagisti italiani si parla tanto, eppure si sa ancora così poco di questo fenomeno e delle norme che lo regolano. Quella dello stagista è una vita comune a molti giovani. Significa alzarsi ogni mattina tenendo per mano il sogno di poter lavorare facendo quello per cui si è studiato. Un sogno ogni giorno più difficile, e ti ritrovi con la faccia sconsolata simile a quella dei tuoi colleghi universitari che come te si ritrovano a saltare da un colloquio all’altro. Le giornate iniziano tutte così quando sei giovane e senza impiego: un bicchiere di caffè in mano, la posta elettronica aperta e moltissimi siti che espongono annunci più o meno seri di lavoro a cui inviare un curriculum vitae spesso eccellente. Cercare le offerte di lavoro, inviare candidature, e curare il profilo LinkedIn, sono le attività principali del giorno, come controllare spesso il telefonino aspettando “la chiamata”. È una vita di attesa. Ai colloqui ti viene spiegato il lavoro che farai, la politica aziendale, e i motivi che li hanno portati a sceglierti, ascolti gli elogi sul tuo curriculum ricco di corsi e laboratori interessanti, e il più delle volte attendi a pugni chiusi il responso sul tasto dolente per eccellenza: il rimborso spese. Che spesso non c’è. Ma probabilmente sei tu a non renderti conto dell’opportunità che quell’azienda ti sta offrendo: visibilità, esperienza, lezioni di vita da veri professionisti. E poco importa se dovrai lavorare dal lunedì al sabato, con orari che sarebbero considerati illegali in molti paesi del mondo, sei agli inizi e la gavetta s’ha da fare. E mentre accetti, perché sai che solo facendo esperienza potrai diventare un vero professionista, non puoi fare altro che chiederti se sia davvero la svolta per uscire dal tunnel degli stage a costo zero.