Le luci dei riflettori sulla transizione politica birmana si sono spente ormai da qualche mese. Il Paese, ex colonia del Regno Unito, è sottoposto a dominio militare dal lontano 1962. La famosa Aung San Suu Kyi, Nobel per la pace nel 1991, è il simbolo della lotta democratica e contemporaneamente la vittima di un regime violento e repressivo che l’ha privata per anni della libertà, fino al 13 novembre 2010, quando ha concluso la sua prigionia. Il primo aprile 2012 si sono tenute elezioni credibili e comunque limitate a 48 seggi su più di 600, mentre il prossimo appuntamento elettorale è previsto nel 2015. La vittoria di Aung Suu Kyi in quasi tutti i seggi è stato il primo passo per una collaborazione con tutte le forze politiche nel tentativo di creare un clima più democratico.
Ciò nonostante, il Parlamento è fortemente polarizzato dal Partito Unione Solidarietà e Sviluppo vicino al regime e la situazione globale della Birmania ad oggi resta critica. I numeri forniti dall’Heritage Foundation, istituto che valuta l’indice di libertà economica, sono da questo punto di vista emblematici. Il Paese si trova al 172° posto dell’indice riferito al 2013, con un punteggio molto basso rispetto alla media regionale. Recentemente, grazie a una nuova legge che consente piena proprietà a imprese estere, si è avuta un’apertura più chiara ai capitali stranieri. I problemi, d’altra parte, sono i soliti: pessima gestione delle finanze pubbliche, mancanza di un potere giuridico indipendente, corruzione e controllo statale asfissiante. I servizi pubblici inefficienti sono la prima occupazione in un mercato del lavoro sottosviluppato. Quale può essere dunque il modello di sviluppo in grado di trainare la Birmania verso la democrazia?