Londra, 11.30 di un martedì di aprile.
Se vi foste trovati su Regent Street, quella mattina, avreste potuto scorgere una ragazza, Jacqueline Traide, sottoporsi ad una seduta di “live human testing” . Così, appena dietro la vetrina di un negozio Lush, l’artista ventiquattrenne si offriva da cavia per dei test tipici dell’industria cosmetica, legata e immobilizzata proprio come un animale da laboratorio.
Per lei nessuno sconto: esposizione ad agenti chimici, ingestione forzata di sostanze, irritazione indotta degli occhi e due iniezioni saline. Per curiosi e passanti è stato subito chiaro non si trattasse di una versione sexy di oppressione della donna, ma bensì di una vera e propria sfida all’apatia sul tema dei test dell’industria cosmetica sugli animali.
Che per sensibilizzare la società un’artista possa spingersi a subire quelle stesse torture a cui sono sottoposte cavie di laboratorio è di per sé scioccante. Anche se, compresa la forza dell’intenzione, rimane un interrogativo: come mai la performance è stata portata avanti proprio in quella vetrina, in quel negozio? Non si tratta certo di un caso, visto che stiamo parlando di uno degli store più importanti della Lush Fresh Handmade Cosmetics. Si, proprio della famosa azienda di cosmetici nata dall’idea di cinque vegetariani e vegani che fa della genuinità e della naturalezza dei propri ingredienti il suo punto di forza.
Ecco che lo scopo di quelle torture inizia ad essere più chiaro: facendo un po’ di attenzione quello stesso messaggio lo si legge anche su etichette di saponi e sali Lush: “strictly NO animal testing”. Ebbene sì, a suo modo in quella vetrina di Regent Street la performance non rappresentava solo una campagna di sensibilizzazione, ma anche una di marketing. Una manovra decisamente aggressiva, rischiosa, il cui chiaro obiettivo era condividere uno dei pilastri della mission di Lush con la società in cui l’azienda opera e prospera.
La condivisione come punto di partenza per circondarsi di una clientela ricettiva può sembrare a prima vista una scoperta banale: d’altronde è proprio questa la ratio di ciò che gli esperti hanno iniziato a chiamare marketing tribale. Questa “nuova” visione del marketing non mira infatti più a raggiungere il singolo cliente, ma vuole creare una vera e propria comunità collegata al marchio. In questo modo è proprio tutta la “tribù” di coloro che si avvicinano all’azienda a riconoscersi nei suoi valori e ad essere partecipe non solo del consumo ma anche del supporto e dello sviluppo del brand.
Alla luce di queste riflessioni non stupisce che Lush ad oggi non possieda un tradizionale dipartimento di marketing, ma basi la promozione “solamente” su pubblicità in store e passaparola. Strategia di marketing decisamente non convenzionale, perfettamente in linea con i prodotti del marchio che in ogni modo, dal nome alla componentistica, si vogliono distanziare dalla più tradizionale e spietata competizione dei tradizionali cosmetici.
Con quest’ultima trovata Lush ha dimostrato ancora una volta di non conoscere mezze misure, e ancora una volta ha fatto di questa sua caratteristica un punto di forza. Prendere una posizione così netta su uno dei temi socialmente e politicamente più scottanti tuttavia non è stata sicuramente una mossa indolore: vi sono infatti interi Paesi in cui Lush non può aprire negozi perché le legislature locali richiedono test sugli animali per commercializzarne i prodotti. L’azienda d’altro canto non accenna a cedere e continua a testa bassa con la strategia che l’ha portata in meno di dieci anni ad aprire più di 800 negozi in 49 Paesi. Non voler rinunciare ai propri ideali, in fondo, forse paga ancora.