Nel 2011 era al 29,1%. Nel 2012 al 35,3%. Oggi è al 37,5%.
Quando si tratta di classifiche europee, l’Italia – e gli italiani ormai lo sanno – si colloca nelle ultime posizioni. Soprattutto se si parla di crisi economica e nello specifico di tasso di disoccupazione giovanile. Una percentuale che nel Mezzogiorno gioca a testa o croce con i ragazzi fra i 15 e i 24 anni: uno su due è senza lavoro. Peggio di noi solo Grecia, Spagna e Portogallo.
Il dato più drammatico riguarda però i cosiddetti NEETs. Una parola che sta entrando nel vocabolario dei problemi più urgenti per la politica europea. Chi sono?
Acronimo di “Not in Education, Employment or Training”, questa etichetta raccoglie sotto di sé tutti quei giovani che non sono nè impegnati in attività formative o scolastiche nè lavorano. Non fanno nulla. Anzi, qualcosa fanno: pesano socialmente ed economicamente. Secondo una ricerca condotta nel 2012 da Eurofound, se lavorassero potrebbero contribuire in Italia ad un aumento di circa il 2% del Pil. Invece sono destinati a ingrossare le fila della disoccupazione strutturale.
Giovani con basso livello di istruzione, immigrati, che soffrono di problemi di salute, oppure segnati da contesti familiari difficili. Sono queste le categorie che lo studio dell’agenzia europea individua come più a rischio nel variegato panorama della generazione Neet.