Si dice che il tempo curi i cuori spezzati. Sarà vero? Ora è la scienza a dirci che il tempo non è la migliore medicina: la smentita all’antico credo arriva da un’università scozzese. Conosciuta come “sindrome del cuore infranto”, la cardiomiopatia derivante dallo stress o da traumi come lutti, incidenti o divorzi, si pensava fosse un disturbo che tendeva a sparire col passare del tempo.
A chiedersi se fosse vero, e a dirigere uno studio per indagarne gli effetti, è stata la dottoressa Dana Dawson, docente in medicina cardiovascolare presso l’Università di Aberdeen, che con il suo team ha seguito un campione di pazienti che presentavano la dolorosa sindrome.
L’esito dello studio non è stato rassicurante: il cuore dei pazienti non si è “riparato” come ci si aspettava: inizialmente dava per scontato che si creasse una sorta di auto-guarigione, ma ciò che ha provato lo studio è stato esattamente il contrario.
Tale sindrome colpisce soprattutto le donne, e tende a provocare dolori al petto che sono confondibili con un attacco di cuore. La differenza è che in questo caso le arterie non vengono ostruite, ma i muscoli del cuore appaiono comunque indeboliti.
Ciò comporta comunque un rischio non indifferente, tanto che la percentuale di mortalità è paragonabile a quella degli attacchi di cuore. I pazienti sotto osservazione continuavano a lamentare spossamento, tanto da non poter prendere parte ad attività stancanti, alcuni addirittura da non riuscire a tornare al lavoro dopo l’esposizione a tale stress.
In questo periodo, i pazienti sono stati sottoposti ad analisi con strumenti sofisticati come risonanze magnetiche cardiache e spettroscopie, e si è potuto osservare che i loro cuori continuavano a presentare anomalie, anche se esami più classici come l’elettrocardiogramma mostravano che le funzioni cardiache erano tornate alla normalità.
Lo studio ha quindi dimostrato che il motivo per cui i pazienti continuavano a mostrare dei disturbi non fosse puramente psicologico, ma che il loro cuore non era tornato alla normalità anche dopo mesi dall’evento traumatico, nonostante non ci fossero danni apparenti.
La dottoressa Dawson intende restare in contatto con i pazienti per verificare se questi disturbi tendano a passare in un periodo di tempo maggiore; nel caso i pazienti non si riprendano completamente, si apriranno nuovi interrogativi sul fatto che ci possano essere cause ulteriori o il motivo è da attribuire a qualcosa di preesistente che li ha resi sensibili a questo tipo di disturbo.