E’ polemica negli USA dove Apple è sotto accusa per aver abusato della cosiddetta “competizione fiscale fra Paesi” al fine di evadere le tasse in patria. Le argomentazioni del Dipartimento di Stato sono chiare: Apple, approfittando di una rete di controllate irlandesi che ricevono royalties da ogni parte del mondo per lo sfruttamento di proprietà intellettuali, e “sfruttando” al contempo i trattati contro le doppie imposizioni, non paga tasse né in Irlanda né negli USA. In questo modo, la società avrebbe accumulato 100 miliardi di dollari, che, se rimpatriati negli USA, sarebbero soggetti ad una tassazione del 35%. Altrettanto serie però le ragioni sostenute dalla Apple: (1) il principale concorrente, la coreana Samsung, paga il 14% di tasse (contro il 35% che si paga negli USA), un evidente vantaggio competitivo; (2) con l’applicazione diffusa della sua tecnologia, la Apple ha contribuito a creare nuovi posti di lavoro nelle industrie manifatturiere e dei servizi USA (si parla di 600.000 persone), ad aumentare la produttività del sistema-Paese e ha pagato 6 miliardi di tasse negli USA (la cifra più alta mai pagata).
La concorrenza al ribasso fra sistemi fiscali (che risale agli anni ’70 nella conservatrice Inghilterra, frutto della “de-regulation” thatcheriana) ha reso gli erari più poveri, ha sottratto risorse destinabili alle necessità statali (dalla scuola alla difesa alle infrastrutture), ha portato ad una ri-allocazione geografica di imprese e lavoro guidata da elementi “liquidi” (la fiscalità, l’efficienza finanziaria, il ritorno finanziario di breve termine) a discapito di elementi “solidi” (lo sviluppo di tecnologia, la creazione di lavoro in settori “avanzati”, la creazione di filiere industriali e di competenze)e ha favorito infine “asimmetrie” finanziarie ed informative.
E’ corretto auspicare mercati regolati in modo equo e trasparente?
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