Parliamo di pod: le capsule per il caffè, versione 2000 della macchina per l’espresso, a sua volta evoluzione della vecchia moka. Nell’ultimo paio di anni l’impatto ambientale dei miliardi di capsule vendute costantemente in tutto il mondo ha attirato l’attenzione dei consumatori e dell’industria.
Le capsule hanno forse risposto a un bisogno che non c’era, introducendo un nuovo modo di bere il caffè, ma per quanto ora sia facile dire che l’umanità potrebbe farne facilmente a meno, sono diventate l’abitudine di milioni di persone.
L’elevato impatto ambientale, al di là del maggior dispendio di energia per produrle e utilizzarle, e della quantità di imballaggi secondari necessaria, deriva in gran parte dalle capsule stesse e dal loro smaltimento. Hanno una composizione variabile: possono essere fatte di materiali plastici o metallici e la complessità del loro smaltimento risiede nel fatto di dover separare elementi di piccole dimensioni dal loro contenuto organico – il caffè, appunto.
Le peggiori sotto questo punto di vista sembrano essere le Keurig, le più diffuse negli Stati Uniti, usate ogni giorno dal 30% degli americani: sia per i diversi materiali che le compongono (plastica e alluminio), sia per il fatto di essere piccoli elementi composti da ancora più piccole parti che per poter essere smaltite andrebbero separate, sono praticamente impossibili da riciclare o riutilizzare. L’anno scorso qualcuno si è preso la briga di calcolare che se si fossero messe in fila tutte le capsule Keuring finite nei rifiuti nel corso del 2014, avrebbero fatto il giro del mondo dieci volte e mezzo. Lo stesso inventore ha rilasciato recentemente dichiarazioni poco entusiaste, definendole “le sigarette del caffè” per potenziale di consumo – e di relativo impatto ambientale.
Nonostante la forte pressione mediatica, sia Keuring che il suo corrispettivo europeo (Nespresso) hanno finora compiuto deboli tentativi per limitarne l’impatto ambientale: Keuring ha da poco iniziato a proporre una versione in polipropilene, che dovrebbe sostituire il 100% della produzione entro il 2020. Decisamente più facili da riciclare delle capsule attuali, probabilmente alleggeriscono le coscienze dei consumatori eco friendly, ma non rappresentano una soluzione: sono comunque miliardi di piccoli pezzi di plastica in più prodotti ogni anno.
Nemmeno la Nespresso, sebbene sia avvantaggiata dal fatto che le sue capsule siano costituite interamente di alluminio, ha sviluppato un approccio risolutivo. Il programma The positive cup, partito nel 2013, ha l’obiettivo di arrivare a ritirare il 100% delle capsule usate entro il 2020: considerando che al momento non c’è alcun incentivo per i clienti che le riportano in negozio, sarebbe interessante capire come la società pensa di poter raggiungere questo risultato. Per ora l’unico “sforzo” è stato mettere in vendita un porta-capsule-usate: stessa funzione di una borsa di plastica, ma molto più chic. Le nuove capsule saranno prodotte con alluminio rispondente agli standard di certificazione dell’Aluminium Stewardship Initiative e la società afferma che verranno riciclate ogni qual volta “ciò apparirà vantaggioso per l’ambiente”: affermazione a dir poco vaga.
Nel frattempo, società più coraggiose (e meno dipendenti dal prodotto) si sono invece dedicate allo sviluppo di versioni biodegradabili (che si possono dissolvere in acqua, nel suolo o nell’aria tramite l’azione di batteri o enzimi, impiegandoci anche anni) o compostabili (che oltre a dissolversi liberano sostanze nutritive, il tutto in un tempo relativamente breve). Il fatto che ci voglia così tanto tempo a proporre una valida alternativa è dovuto a diversi fattori: al di là dalla fase di ricerca e sviluppo di un nuovo materiale, le caratteristiche biodegradabili o compostabili devono essere testate su diversi tipi terreni per poter garantire le qualità del prodotto, e il materiale non deve ovviamente influire sul sapore del caffè.
Due produttori italiani hanno recentemente lanciato capsule compostabili: le Éspresso 1882 di Caffè Vergnano e le capsule compostabili di Lavazza potrebbero segnare il passo di svolta del mercato, ma per riuscirci dovranno superare l’ostacolo rappresentato da una connotazione spiccatamente amica dell’ambiente. Attribuire caratteristiche “verdi” a un prodotto scatena di solito l’automatica convinzione che la sostenibilità sia stata ottenuta a discapito della qualità o dell’efficacia o della bontà del prodotto in questione. Se e a questo aggiungiamo la dimensione abitudinaria di alcune tipologie di consumi, è facile immaginare quanto sarà difficile cambiare il rito mattutino del caffè.