Il 61% delle 50 più importanti startup fondate in Australia sono state fondate da immigrati o da figli di immigrati, secondo il rapporto StartupAUS Crossroads di quest’anno.
Nonostante questo, la tech industry australiana deve affrontare la forte opposizione del governo all’assunzione di lavoratori qualificati provenienti dall’estero: recentemente, entrambi i più importanti partiti politici del paese hanno proposto di modificare in senso più restrittivo le attuali leggi sui visti di lavoro, che permettono alle aziende di sponsorizzare lavoratori qualificati di provenienza straniera per un massimo di quattro anni.
Lo scorso Novembre, il ministro per l’immigrazione Peter Dutton ha annunciato che il tempo in cui un lavoratore potrà restare in Australia dopo la scadenza del suo visto sarà ridotto da 90 a 60 giorni: “Questo cambiamento” secondo il ministro “ha come scopo la riduzione della concorrenza che i lavoratori provenienti da oltreoceano rappresentano per quegli australiani che stanno attivamente cercando lavoro: quando un lavoratore australiano è pronto, disponibile e abile per un qualsiasi ruolo lavorativo, è dovere del governo dare ad esso la priorità”.
Ma nel rapporto, che si occupa dell’ecosistema startup australiano, si sostiene invece che l’Australia deve essere più aperta ai lavoratori nel settore informatico provenienti dall’estero, e non più chiusa, in quanto è difficile trovare australiani con più di 10 anni di esperienza nel settore, ancora agli albori nel paese.
Il cofondatore di Atlassian, Mike Cannon-Brookes, condivide questo punto di vista, e pensa che strumentalizzare la questione dell’immigrazione per fini politici potrebbe danneggiare aziende come la sua: in un intervista a The Australian, ha spiegato che alle tech companies dell’Australia servono persone con determinate abilità, che non sono facili da trovare nel paese.
Nel rapporto, insieme ad altri consigli, viene anche suggerito al governo di creare un’agenzia nazionale per l’innovazione.