Letteratura Subliminale: Quando Marketing fa Rima con Narrativa

È davvero difficile immaginarsi l’agente Bond senza un Martini “shaked not stirred” in mano: per l’esattezza Felming nel suo “Casino Royale” del ’53 lo ritraeva con un Vesper Martini, ma questo poco importa. Ciò che, invece, conta è che a nessuno verrebbe mai in mente di sostenere che lo scrittore britannico avesse alcun tipo di interesse nel pubblicizzare il celebre drink. Semmai questo gemellaggio è servito a definire un aspetto della personalità del personaggio, del suo stile di vita sofisticato ma dry, esattamente come un Martini appunto.

In realtà, non è una novità che in letteratura spesso si trovino citazioni di specifici marchi e prodotti: si pensi ai romanzi di Sophie Kinsella o a “Glamorama” di Easton Ellis in cui l’ossessivo richiamo a famosi brand vuole raccontare la superficialità e il mondo patinato così vicini ai protagonisti; o, ancora, al Barney de “La versione di Barney”, incallito bevitore di whisky sì, ma solamente Macallan; oppure addirittura a Ernest Hemingway che nel suo “Il giardino dell’Eden” rende l’acqua minerale francese Perrier protagonista assoluta dell’opera.

Differenti esigenze narrative giustificano questi richiami ed evitano che l’opera letteraria si trasformi in spot promozionale; per quanto poi, spesso, lo divenga suo malgrado.

Non che la contaminazione tra pubblicità e letteratura sia di per sé un male. Già nel XIX secolo, infatti, con la c.d. pubblicità d’autore, scrittori e vati prestavano di buon grado la loro penna a lungimiranti industriali: così, letterati del calibro di D’Annunzio, Marinetti e Matilde Serao si occuparono di “riviste aziendali”, senza vergogna alcuna. Tuttavia, qui l’esigenza promozionale della merce veniva chiaramente dichiarata.

Altra cosa è, invece, quando tra le righe di un buon romanzo compaiono qua e là, senza alcun valido motivo narrativo, riferimenti a marchi e prodotti di per sé trascurabili, per non dire fastidiosi. È il caso dell’ultimo best seller di Murakami, “L’incolore Tazaki Tsukuru e i suoi anni di pellegrinaggio”. Passi, infatti, l’ostentata celebrazione dell’automobile nipponica Lexus, in opposizione alle Mercedes straniere del padre di Tazaki, passi che l’ora possa essere scandita solo da un Tag Heuer – non si capisce, per altro, perché non si potesse indicare un qualsiasi altro marchio d’alta orologeria – ma per quale ragione all’interno dello stesso romanzo devono essere citati numerosi altri marchi, come, ad esempio, Lacoste, Yamaha, Cutty Sark, Apple e Bang & Olufsen (solo per riportarne alcuni)?

Il dubbio, di per sé lecito – per quanto, si spera, infondato – è che lo scrittore giapponese abbia ricevuto un qualche ritorno economico per questa insolita quanto subliminale forma di marketing.

Ma la questione di fondo è un’altra: è altrettanto lecito considerare il lettore un consumatore non di opere letterarie ma di prodotti che con queste nulla c’entrerebbero? Si può accettare che la lettura si trasformi in attività di product palcement mimetico anziché rimanere un piacere disinteressato?