Uno dei temi cruciali di questa “guerra economica” che vede coinvolte tutte le più floride nazioni del mondo è la sostenibilità del debito dei Paesi.
Gli Usa sono appena stati tecnicamente a rischio default, dopo che il governo ha esaurito il limite di 16.700 miliardi di dollari di debito pubblico emettibile. Per l’ennesima volta dunque, entro lo scorso 17 ottobre, i partiti sono stati costretti a decidere l’aumento del tetto al debito. Per intenderci, ciò che ha scatenato le giornate travagliate dello Shutdown, i cui strascichi si ripercuoteranno ancora per qualche tempo sulla stabilità dell’economia statunitense. Per l’Italia spesso si dice che il tallone d’Achille siano quei 2000 miliardi di debito che, rapportati a un Pil calante (ha perso 8 punti dal 2008 ed è sceso sotto 1.600 miliardi), proiettano il rapporto debito/Pil intorno a quota 130%, ben lontano da quanto previsto sia da Maastricht che dal Fiscal Compact (che giudicano come ammissibile un rapporto del 60%). Purtroppo questo indice di indebitamento influisce pesantemente sul ranking di un Paese e, al diminuire del ranking, aumentano gli interessi da pagare sui fondi ottenuti grazie alle emissioni (un circolo vizioso che ha condannato molti stati, Grecia in primis).