Immaginate di non avere possibilità di scelta. O per lo meno, di averla ma di affidare le varie opzioni alle sei facce di un dado, di lanciarlo e attendere col fiato sospeso che decida lui il vostro destino, al posto vostro.
Luke Reinhart, psichiatra, fa esattamente questo: per un capriccio – l’infatuazione per la moglie di un collega – finisce a tradire la propria moglie, spinto dal dado e dal numero a cui aveva confidato il suo desiderio. Ma fatto una volta, non gli basta più; il passo dalle domande più banali alla rottura di qualsiasi inibizione è molto breve. Scava nei tabù, nei desideri, nelle azioni che nessun essere umano dotato di raziocinio compirebbe se non spinto da qualcuno, o qualcosa in questo caso: un dado. Una spirale senza fine che trascinerà sul fondo della morale lui e tutti quelli che lo circondano.
Ciò che ho appena raccontato sopra, a brevi cenni, è la storia de L’uomo dei dadi (1971), il succitato psichiatra che finisce per diventare, suo malgrado, il guru di tanti imitatori curiosi di ribaltare sottosopra la propria esistenza, senza apparenti rimpianti.