La Cina è storicamente definita la “fabbrica del mondo”: grazie alla globalizzazione molti processi produttivi sono stati dirottati verso Paesi più convenienti, nei quali la manodopera fosse meno onerosa, per aumentare il margine tra il prezzo di vendita e i costi di produzione.
Dalla fine dei conflitti mondiali, l’economia cinese, e in generale dei Paesi emergenti, è cresciuta a dismisura e in tempi brevissimi: i primi effetti si notano con l’entrata di questi Stati nella competizione con quelli industrializzati.
In secondo luogo, le grandi ondate produttive hanno permesso alla manodopera cinese di accrescere il proprio potere contrattuale fino a pretendere salari pari a quelli europei. Secondo i dati di Euromonitor, azienda specializzata nelle ricerche di mercato, il salario orario dello scorso anno in Cina è pari a 3,60 dollari, superiore a Brasile, Argentina e Messico. Questo è l’effetto della globalizzazione sulla “fabbrica del mondo”: la qualità della vita della popolazione è aumentata considerevolmente grazie all’esternalizzazione delle linee produttive delle principali multinazionali.
Per avere un ulteriore termine di paragone, l’attuale salario medio cinese è circa cinque volte superiore a quello indiano e quasi agli stessi livelli di Paesi come il Portogallo e il Sud Africa. Questa rapida evoluzione e il potere acquisito negli anni hanno effetti sia sull’economia estera sia su quella interna.
Da un punto di vista esterno ai confini del Paese, la Cina è la principale minaccia per l’America. Anche l’attuale Presidente Trump non ha certo occultato le sue preoccupazioni in merito, proponendo di combattere il nuovo concorrente con dazi doganali per favorire la produzione locale. Tuttavia, nonostante i timori del 45esimo Presidente siano fondati, c’è il concreto rischio che i lavori della filiera produttiva statunitense vengano spostati in altri Stati non colpiti dal regime protezionista del tycoon.
I precedenti ci sono tutti: era il 2009 quando l’ex Presidente Obama imponeva tariffe maggiorate ai prodotti cinesi. La testata giornalistica LA Times conferma:
Sul fronte interno, l’aumento degli stipendi ha permesso l’espansione della base dei consumatori soprattutto nel settore della ristorazione e dell’abbigliamento. Il risvolto negativo della medaglia riguarda gli investimenti diretti esteri (IDE). Infatti, la crescita del salario medio causa la progressiva diminuzione della capacità di attrarre nuovi investitori: questo si traduce nell’ennesimo trasferimento delle linee produttive nei nuovi Paesi a basso costo. I dirimpettai Myanmar e Cambogia sono degli ottimi candidati per diventare ciò che la Cina rappresentava vent’anni fa.
I nuovi assetti economici, per quanto prevedibili, sono destabilizzanti per la nuova potenza economica. La Cina adesso deve fronteggiare un problema più grande: riorganizzare tutta la sua economia in funzione del ruolo che ricopre all’interno del mondo globalizzato. È già un Paese determinante nelle scelte strategiche di molte multinazionali, ma il suo mercato del lavoro è ancora troppo vulnerabile: il tasso di occupazione potrebbe essere ridotto dai lavoratori dei Paesi sottosviluppati con salari pari a 50 centesimi orari.
Perciò, la Cina deve orientare le sue scelte non tanto verso un’ulteriore crescita, quanto in direzione di un consolidamento del suo attuale potere politico ed economico, per evitare che la bolla della globalizzazione si dissolva nelle sue stesse mani.