Musica e Social Network, Chi è e Cosa fa il Social Manager di una Band

social media manager

Non c’è bisogno nemmeno che si rimarchi l’importanza dei social network in ambito musicale, in tempi in cui uno scambio di battute tra un rapper e un segretario di partito via Twitter tiene banco per giorni sulle prime pagine (online) dei quotidiani nazionali. Gli ultimi dati forniti ufficialmente da Instagram, tuttavia, inquadrano un fenomeno che se letto in chiave industriale torna utile per capire quanto non di solo streaming, oggi, si alimenti il music businness: dei 100 account più seguiti sulla piattaforma lanciata da Kevin Systrom e Mike Krieger nel 2010 (oggi controllata da Facebook) 75 sono intestati a celebrities, molte delle quali musicisti, che – a loro volta – popolano per un quarto i 500 top account. Giusto per parlare meno in astratto, le sole Selena Gomez, Taylor Swift e Beyoncé da sole raggiungono la bellezza di oltre 230 milioni di follower, che – tanto per giocare un po’ coi big data – equivalgono a quasi quattro volte la popolazione italiana.

Se la guerra per la sopravvivenza (discografica) si combatte su Youtube, Spotify, Pandora e le altre piattaforme online, la battaglia quotidiana per la promozione ormai si combatte ormai via social. E una missione tanto importante, potrete capire, nessuno ha più voglia di affidarla al caso. Proprio come i candidati alle elezioni che un tempo si consegnavano nelle mani degli spin doctors per occupare al meglio e amplificare la propria esposizione mediatica, oggi gruppi e cantanti non esitano a ingaggiare esperti del settore capaci di trasformare il più banale dei selfie in un evento. Con una sostanziale differenza rispetto al passato, però: mentre una volta lo stratega nelle pubbliche relazioni era un problema che ci si poneva dal milione di copie vendute in su, oggi a chiedere una mano per gestire il proprio profilo Facebook o Twitter potrebbe essere anche il vostro collega che nel tempo libero suona in un gruppo locale.

I social media manager musicali sono figure estremamente defilate, che pure rimpiono quotidianamente le pagine dei giorni: lanciano tendenze, sedano risse – telematiche, of course -, consacrano successi ed evitano scivoloni, pur restando totolamente invisibili. Perché tutto sommato è bello credere nella storiella sull’azzeramento via Web delle distanze tra artista e pubblico secondo la quale, dall’altra parte dello schermo, a postare, ci sia la star di turno: alla fine, fa tutto parte del gioco.

“Io non esisto”

Nicola Bonardi, che da anni gestisce i profili social di una band molto nota sul panorama musicale tricolore, ci dice proprio così: “Io non esisto. Operare nell’ombra è necessario: il nostro è il classico lavoro dietro le quinte”. Lui e i suoi colleghi non hanno comprensibilmente alcuna voglia di rivelare i nomi dei loro clienti. Che, però, sono sempre di più: “Negli Stati Uniti agenzie come la nostra viaggiano a velocità che nemmeno riusciamo a immaginare, da noi invece sono relativamente una novità”, conferma Ivan Butera, che con la sua società Imsocial gestisce dal 2012 i profili di più di una star tricolore: “Sentiamo di aver riempito un buco: oggi la gente passa la maggior parte del tempo online sui social network, e da parte dei grandi artisti sarebbe stato un peccato trascurare questo spazio”.

Il social media manager è forse la figura che più di ogni altra lavora a stretto contatto con l’artista: “Ci si sente quotidianamente”, assicura Bonardi, che con i propri clienti lavora ormai da tempo, tanto da essersi assicurato margini di manovra tanto ampi da arrivare, per certi versi, alla concessione della classica carta bianca, “E’ un compito molto delicato, però: si tratta di veicolare la loro immagine sul Web”. La funzione, inedita, è quella di alter ego sociale a 360°: perché l’artista è impegnato in tour, in promozione, in interviste e altre incombenze, e spesso anche la pubblicazione del più classico e scontato selfie diventa un’impresa. “Se un nostro cliente ci invia un’immagine scattata da uno smartphone, noi la trattiamo graficamente, perché rispetti comunque degli standard qualitativi elevati”, rilancia Butera, che non dimentica l’aspetto fondamentale del suo ruolo: l’interazione coi fan. “Se un artista è un’azienda, i suoi fan rappresentano la sua clientela, e non c’è bisogno di dire quanto, oggi, sia importante il customer care”, ci spiega: “Sul rapporto diretto tra fan e artista non vogliamo intervenire: preferiamo che sia l’artista stesso a prendere parola spontaneamente, se ne ha voglia”. Quando si ha a che fare con account che superano il milione di follower l’impresa è titanica: “Non sono tutti Gianni Morandi [celebre, ormai, per la presenza quasi ossessiva su Facebook]: seguire ciò che succede su una pagina social è un lavoro molto impegnativo, che richiede un grande impegno. Nel caso di un nome molto famoso, si può anche rispondere a dieci messaggio al giorno, ma i restanti quattrocento ai quali non si riesce – per ovvie ragioni di tempo – a dare risposta possono generare malumori”.

Senza contare la bassissima soglia d’attenzione del pubblico social: “Essere ridondanti è d’obbligo, non bisogna avere paura di ripetersi”, aggiunge Bonardi: “Nessuno ti dirà mai ‘questo l’hai già detto’. Specie su Twitter, dove in pratica la ripetizione non conta. I contenuti vanno però veicolati in modo diverso, a seconda della piattaforma. Già, perché l’universo dei social media è sfaccettato, ma ancora più sfaccettato è il profilo di chi li frequenta, segmentato per età, abitudini e interessi. Senza contare, poi, le peculiarità del titolare dell’account. La morale? La pagina social perfetta non esiste: “Ogni caso fa storia a sé”, conferma Butera, “Se un artista è a proprio agio coi social allora ci può stare una pagina con tanti post personali spontanei. Nei casi dove invece il titolare del canale sia un big è necessaria una comunicazione più organizzata, un po’ come se si trattasse di un brand. La mia formula preferita è quella della presenza online strutturata multipiattaforma, che integri i canali social al sito e allo store”. Il perfezionamento delle tattiche di social marketing non deve però oscurare quella che è la funzione primaria di un canale ufficiale, cioè quello di dare l’illusione di avere un filo diretto con una star potenzialmente inarrivabile: “In genere noi rispondiamo solo ai messaggi pratici, quelli che riguardano orari o modalità di appuntamenti come in-store, concerti o apparizioni di varia natura”, continua Butera, “A quelli più privati o di carattere personale preferiamo che sia l’artista a rispondere, perché non vogliamo snaturarlo”.

The perfect (shit)storm

Quando gli escrementi finiscono nel ventilatore succede che qualcuno si sporchi, e sui social network può succedere che un post frainteso, una frase fuori contesto o un commento troppo pungente possa sollevare un notevole polverone mediatico, capace di incidere anche molto negativamente sull’immagine pubblica di chi posta. E per chi con l’immagine pubblica ci lavora uno scivolone del genere può essere un dramma. Alla fine dello scorso anno la Melegatti diffuse sui propri canali social una pubblicità (questa) che catapultò l’azienda veronese nell’occhio del ciclone per il sottinteso omofobo del messaggio. “Quello nel nostro ambiente è diventato un case study”, spiega Bonardi: “Non solo per il primo post, ma anche per i successivi, che si rivelarono essere la classica toppa peggiore del buco”. Di casi estremamente gravi, raccontano i social media manager musicali, in Italia non se ne sono mai verificati: chi lavora tutti i giorni a contatto con il pubblico sa quanto l’audience sia infiammabile e procede coi piedi di piombo: “Da parte nostra, a monte, c’è una prudenza estrema. La Rete è molto suscettibile, e certe cose si tende ad evitarle, prevenendole”, prosegue Bonardi: “Nella mia esperienza ci fu il caso di un dissing avviato da un altro artista: ci limitammo a ritwittare il messaggio di insulti, senza commentare alimentando la polemica, e tutto si risolse in poche ore”. “Un paio di volte mi è capitato di essere chiamato come consulente in situazioni piuttosto critiche: più che altro ho dato qualche parere e spiegato come avrei agito io, che conosco bene le dinamiche del Web”, racconta Butera: “Una volta l’artista aveva nelle interviste l’unico modo per comunicare con le grandi platee, e durante le interviste era sempre presente un addetto stampa pronto a smorzare qualsiasi asperità nella conversazione. Un artista fa l’artista e non è suo compito pensare alle implicazioni di quello che dice. E’ impulsivo. Quando ha accesso diretto ai suoi social network può succedere che scriva qualcosa della quale potrebbe pentirsi. Poi certo, in genere si dà la colpa agli hacker, ma quando succede con una certa frequenza qualche domanda è giusto porsela. Io dico sempre che prima di cliccare su ‘pubblica’ dopo aver scritto un post bisogna contare fino a dieci. Quando mi arrivano delle proposte dei clienti, conto fino a duecento”.

E se gli artisti il problema di essere improvvidi per lo meno se lo pongono, i fan – il più delle volte – no. I dissidi tra band, cantanti e stampa spesso degenerano in campagna denigratorie anche piuttosto sgradevoli, che sfociano in vere e proprie chiamate alle armi indirizzate dai capi ultrà alle fan base: “Sono frangenti pericolosi, innescati da una dinamica tipica del Web. In genere sono iniziative spontanee dei fan”, riflette Butera: “L’utenza dei social media è varia: ci sono i super-fan, che si organizzano autonomamente in iniziative per favorire l’artista, e gli hater”. Bonardi sostanzialmente concorda: “Sono dinamiche che vanno al di là dei social, e che per fortuna si esauriscono molto in fretta, perché la vita media dei topic sui social è piuttosto breve. Quando è uscito ‘A Moon Shaped Pool’ dei Radiohead, per esempio, per due giorni sui social non pareva esistere altro: poi l’argomento, all’improvviso, è sparito del tutto”. Non che l’artista sia del tutto impotente, in certi casi. “Si prenda per esempio il ‘caso Elisa‘”, osserva sempre Bonardi: “L’artista deve saper gestire le situazioni a livello umano: in quel caso, davanti agli eccessi della base, lei avrebbe dovuto fare un passo indietro. I fan sono i suoi, la responsabilità è sua”.

Can’t buy my like

Ne avevamo parlato anche su Rockol, circa un anno fa: i numeri gonfiati da campagne a pagamento sui social sono all’ordine del giorno. O meglio, lo erano: “L’ossessione numerica per i like o i follower esisteva, sì, e fino a qualche anno fa era molto comune: adesso è passata quasi del tutto”, ci spiega Butera, “Il merito è stato dello sbarco della pubblicità sulle piattaforme social: essendo gli inserizionisti interessati ai numeri reali, i gestori dei vari canali si sono impegnati a fare pulizia. Il risultato è stato il famoso giorno nero di Facebook, quando tutti i counter dei like si sono assestati al ribasso in seguito alla ‘pulizia’ operata dai vertici della società”. Quindi era vero? Band e cantanti compravano like, follower e views? “Sì, qualcuno lo faceva”, conferma sempre Butera: “All’epoca era una cosa nell’aria, tutti volevano vedere salire il numero di like e follower e gli artisti non erano da meno. Così sì, si compravano pacchetti di clic. Credo però che non tutti quelli rilevati come falsi siano frutto di maldestre campagne acquisti. Sul Web c’è molta spazzatura: molti account vengono aperti e poi abbandonati per varie ragioni, e l’idea che mi sono fatto, specie per quanto riguarda i seguiti dei grandi artisti, è che una percentuale di follower inattivi ma ‘reali’ – cioè effettivamente aperti da persone in carne e ossa ma non più utilizzati – sia fisiologica. In ogni modo, quello che ho sempre raccomandato ai miei clienti è che più che il numero di like o follower sia importante una comunicazione attiva, puntuale e ben strutturata”.

Oreste Poverello, che con la sua agenzia Musiccommunication si occupa di realtà emergenti e in via di affermazione, sa bene quanto l’ossessione per le dimensioni (del seguito) ancora alberghi nelle menti della clientela, e ha sviluppato i giusti anticorpi per combatterla: “C’è l’ossessione per il numero dei like o dei follower”, ci conferma, “Ma io il dato numerico non lo considero fondamentale: è meglio avere meno contatti ma attivi, che condividono e commentano i tuoi post, piuttosto che migliaia di follower completamente inattivi. Anche una pagina che abbia solo un migliaio di like, ma che sia in continua crescita, e con una vita social attiva, è da preferire a pagine con decine di migliaia di like ma completamente ferme”. Il messaggio è piuttosto chiaro, quindi: cosa farsene di stuoli di fan fantasma o di esibire un consenso di plastica pronto a sciogliersi come neve al sole? La domanda reale, tuttavia, è: l’avranno capito, gli artisti, che comprare like o views false oggi è ancora più inutile di prima? A giudicare dal proliferare di servizi ad hoc ancora rintracciabili sui principali motori di ricerca, probabilmente no…

Posto quindi esisto. Ma anche nella vita reale?

La questione dell’autenticità, a questo punto, si impone, per diversi motivi. Detto che ormai i social network hanno perso la carica rivoluzionaria di qualche anno fa e che ormai sono diventati canali istituzionali – con ancora enormi potenzialità tutte da esplorare, ma comunque istituzionali, può una buona strategia bastare ad imboccare la via per il successo? Del resto le cronache digitali sono piene di Web star – Justin Bieber, tra le altre – disposte a sottoscrivere la favola bella che li ha visti passare dalla cameretta al palco dei Grammy Awards solo grazie a una webcam e a una connessione Internet. E giusto, quindi, consegnare i propri sogni ai post su Facebook, Twitter e Instagram? No, e i primi a dirlo sono quelli che postando su Facebook, Twitter e Instagram per conto di band e cantanti portano a casa lo stipendio: “Band diventate famose sui social network come Arcade Fire o Arctic Monkeys hanno dimostrato di esserlo guadagnato sul campo, il successo”, osserva Bonardi, che, pur avendo fatto della musica sui social il proprio lavoro, qualche dubbio sulla china che si sta imboccando ce l’ha, “Dave Grohl diceva che essere in una band significa prima di tutto chiudersi in un box coi propri amici e degli strumenti scadenti e fare schifo. E per chi ha più di trent’anni essere un gruppo rock vuol dire questo. Adesso però è tutto cambiato: si cerca esposizione, si insegue il disco da promuovere, si esigono riscontri, sul Web come ai talent show. Alla fine Internet è solo un mezzo, che offre un’esposizione incredibile ma incontrollata: la spontaneità è sicuramente minore ma l’imprevisto è sempre dietro l’angolo”. E chi glielo spiega, ai ragazzini?

“Iniziate scrivendo un ritornello decente”

Qualche settimana fa Flea dei Red Hot Chili Peppers, a colloquio con il chitarrista dei Pearl Jam Micke McReady, si produsse in quello che apparentemente parrebbe essere il più classico o tempora o mores da rockstar ultracinquantenne appagata:

“Quando ero un ragazzino e dicevo che avrei voluto, da grande, far parte di una band, mi dicevano ‘Cazzo, sei pazzo. Non troverai mai un lavoro decente in vita tua. Cosa vuoi fare, rovinarti la vita?’. Se oggi un ragazzino decide di entrare in un gruppo, invece, i grandi gli dicono: ‘Bella idea: ti servirà un consulente di immagine, un avvocato e un manager, per vedere cosa si può fare. E’ una grande opportunità per fare un po’ di soldi, ragazzo…'”

Parebbe un’esagerazione, a chi oggi ha tra i trenta e i quarant’anni, ma le cose nel 2016 funzionano più o meno così: “Adesso ci sono ragazzini di vent’anni con strumenti e backline costosissimi, che decidono di suonare insieme e si mettono a cercare il contatto con l’etichetta, l’ufficio stampa, l’agenzia di booking e il social media manager”, assicura Poverello, che lavorando in ambito indie ed emergente ha sulle nuove leve un osservatorio privilegiato, “Il più delle volte non sanno nemmeno a cosa servano, ma vedono che gli altri lo fanno e loro si adeguano. E spendono un sacco di soldi, nell’ordine dei 5/10mila euro, perché al momento ci credono. Poi, però, dopo un anno sono capaci di sciogliersi e dare vita a un altro progetto, e ricominciare la trafila da capo, per poi non andare da nessuna parte. Trent’anni fa era diverso: si faceva più fatica a emergere, però si ottenevano anche più risultati. E poi c’era un concetto di scena, che adesso è andata completamente perso”. “Ai giovani e agli emergenti dico sempre che di rivolgersi ad agenzie come la mia non dovrebbero nemmeno pensarci”, gli fa eco Butera: “lo scopo dei social è quello di creare relazioni: bisogna avere inventiva e cercare di comunicare al meglio la propria arte e la propria musica. Perché se sei all’inizio fare un post è come fare un concerto, e rispondere ai commenti è come parlare con il pubblico una volta che sei sceso dal palco: se sei giovane e devi farti conoscere, non puoi pretendere di correre a chiuderti in camerino”. “Adesso ci sono band composte da ragazzini tecnicamente preparatissimi, con strumentazioni costose e genitori attivissimi a fare da manager e roadie”, ci spiega Bonardi: “Ne ho viste molte a un concorso dove sono stato chiamato a fare il giurato, ma l’unica che mi ha convinto – e che infatti ha vinto il concorso – è stata una che aveva poca tecnica e strumenti economici, ma qualcosa da dire”. Appunto. Prima di preoccuparvi del tasso di viralizzazone dei contenuti sui canali social, seguite il consiglio di uno che è riuscito a sfondare prima di Facebook: iniziate dai ritornelli…