Nanni Moretti, Mia Madre e Amleto

L’attore deve stare accanto al personaggio: questa è la ragnatela amletica in cui rimane impigliato lo spettatore dell’ultimo film di Nanni Moretti, Mia madre. Amleto, infatti, dopo aver incontrato lo spettro del padre che gli narra come sono davvero andate le cose, va incontro a una metamorfosi, a uno sdoppiamento per cui (attore e personaggio nella sua stessa recita) confessa: ‘Può darsi che d’ora in poi ritenga opportuno recitare la parte del matto’ (atto I, scena V).

Giocando su un analogo contrasto, Nanni Moretti riesce con grande ritmo, delicatezza e coesione formale, a tessere un racconto su un triplice binario: la macrostoria che denuncia l’assenza di dignità in un’Italia in cui il lavoro (specialmente quello fatto bene e pagato) è ormai spesso materiale obsoleto, se non un disvalore; la microstoria di una madre che sta morendo; e la riflessione costante (ma senza risposte) del cinema sul cinema, come linguaggio parallelo alla realtà.

Nanni Moretti si spoglia del narcisismo a volte ingombrante che ha caratterizzato le sue precedenti pellicole, ma non rinuncia al protagonismo, inteso in termini attoriali. Margherita Buy (attrice) recita la parte di Margherita (personaggio protagonista): gira un film su un gruppo di operai che perdono il lavoro, mentre sua madre è in ospedale, e sta perdendo la vita. Margherita, a sua volta, rispecchiando le sue perplessità di uomo e di regista, recita Nanni Moretti, il quale invece come attore interpreta la figura secondaria di Giovanni, fratello di Margherita.

Questa mise en abyme di attori e personaggi non è un ghiribizzo fine a se stesso, ma una scelta estetica funzionale alla rappresentazione della disfunzione anatomica del sentimento umano: la difficoltà intrinseca al sentimento di essere presenti a noi stessi pur non potendo sottrarci all’inevitabile equilibrismo tra finzione e realtà. Esistenzialmente, siamo tutti precari: i poliziotti che picchiano, gli operai che vengono picchiati, le persone che muoiono e noi che le guardiamo morire.

moretti mia madre

A un certo punto Margherita sogna di essere in coda per assistere alla proiezione di un film (probabilmente il suo). Dalla fila si stacca Giovanni, che la prende sottobraccio: ‘Margherita, sempre a prendere tutto così sul serio… per una volta, esci dai tuoi schemi’. Più avanti, procedendo a ritroso con la fila che scorre nel verso opposto, Margherita incontra una coppia di giovani che ripetono lo stesso posticcio e banale copione da lei recitato per lasciare l’ex fidanzato: ‘Ehi, ma quella sono io’ sussurra Margherita alla ragazza; ‘Lo so’ dice lei, e sorride. Margherita si sveglia, fa per alzarsi, ma i suoi piedi affondano nell’acqua, nella realtà dell’appartamento che si è allagato per un guasto idraulico. Non è la realtà in cui Ofelia per disperazione affoga, ma quella che Margherita ha liquefatto con le sue parole prive di speranza.

Un’altra scena significativa è quella della mensa. Margherita si lamenta per la scelta delle comparse: ‘Qui vedo ragazze con unghie finte, ragazzi con le sopracciglia spuntate… avrebbero dovuto essere operai, gente che appartiene a questa realtà’; ‘Ma questa è la gente che trovi per strada, guardati attorno, questa è la realtà’ obietta l’aiutoregista; ‘Be’, allora questa non è la realtà che voglio io!’ esclama Margherita. Sempre alla mensa, l’attore che interpreta il nuovo capo della fabbrica, John Turturro, si dimentica le battute e fa andare su tutte le furie Margherita per il suo atteggiamento da sbruffone; allora lui prende un vassoio e lo scaraventa per terra: ‘Basta, voglio tornare alla realtà, questo copione fa schifo, tutto questo film è uno schifo!’. Poi si scopre che Turturro personaggio soffre di una specie di amnesia: ha difficoltà a ricordarsi la parte che deve recitare, e ha bisogno di scattare ai volti delle persone che lo circondano sul set una foto da mettersi nel taschino della giacca, per non dimenticarsi della loro esistenza.

Se non è facile discernere cosa è finto e cosa è reale, cosa è e cosa non è, possiamo però intuire la realtà che non vogliamo, ribellarci a quest’ultima e fingere attivamente una realtà alternativa che renda giustizia a ciò che sentiamo di voler essere? Ecco il dubbio morettiano: essere attore accanto al personaggio. Non è un punto d’arrivo, ma una ricerca che implica una deviazione consapevole dalla parte che recitiamo, una presa di distanza da ciò che siamo convinti di essere, uno scarto continuo rispetto al nostro sé. Per squarciare, almeno in parte, il paravento dell’abitudine, per capire che siamo e dobbiamo essere anche altro, per ritagliare finalmente uno spazio di verità.

Moretti dimostra coerenza nei confronti del regista che è stato in passato. Non mancano la critica politico sociale e la verve pessimistica di Ecce Bombo o Palombella Rossa. Per farla breve, non manca l’uomo di sinistra. Qui però traspaiono elementi vicini a una sfera più intima. Mia madre è un cinema che riflette su se stesso in modo nuovo, esprimendo un desiderio di uscire dagli schemi che coinvolge lo stesso Moretti sul piano non solo professionale, ma anche esistenziale. Emerge il tocco di un maestro che ha trovato la misura giusta per dosare i colori e la forza del suo pennello. Un Moretti non solo destruens che, pur con amarezza, guarda al ‘domani’: l’ultima parola del film.