Quale oscuro principio può essere la base del successo commerciale e mediatico della Apple, dell’Harley Davidson e della Red Bull, e può al contempo spiegare il fascino che esercitano da sempre i Cowboys, James Dean e Fonzie? La risposta giusta è, come sempre, quella più semplice e immediata: sono tutti “cool”.
Nelle strategie di mercato, nel marketing e nel mondo dell’intrattenimento, come si può facilmente intuire, questo concetto è di fondamentale importanza, praticamente intraducibile in italiano in tutta la sua complessità. Il successo di un brand, come di un prodotto o di un personaggio televisivo, dipende in grandissima misura da quanto esso riesca ad apparire cool agli occhi dei consumatori. Ma cosa rende un oggetto, un brand o una persona cool? Una ricerca apparsa sul Journal of Consumer Research ha provato a trovare una risposta a questa domanda apparentemente irrisolvibile analizzando le strategie di marketing che nel corso degli anni sono riuscite a trasformare dei normali prodotti in brand di tendenza, a renderli cioè cool.
A primo impatto tale ricerca potrebbe sembrare destinata all’insuccesso, poiché il concetto di “coolness” è tutto tranne che universale e cambia nel giro di pochi anni. Gli autori della ricerca, Caleb Warren e Margaret C. Campbell, pur riconoscendo che una cosa non è naturalmente “cool” ma che è resa tale dalla considerazione che gli altri hanno di essa, sono riusciti a trovare una definizione che sembra funzionare decisamente bene: “coolness è una caratteristica soggettiva e positiva, percepita in persone, brands o prodotti e tendenze che sono indipendenti in modo appropriato”.
Una cosa si identifica come cool, quindi, se rompe gli schemi prefissati, se si ribella al sistema, senza però esagerare o creare scandalo. Per capire meglio cosa significhi, nella pratica, tutto ciò prendiamo degli esempi: James Dean e Fonzie sono “cool” perché rompono con gli schemi che la società ha predisposto per loro, si ribellano alla banalità sia nei modi di fare che nell’abbigliamento. Tale ribellione è però moderata sia nella forma che nei contenuti, una trasgressione troppo accentuata infatti risulta controproducente (di Marylin Manson si può dire di tutto meno che sia “cool”).
Per i prodotti commerciali lo schema è lo stesso: la fortuna del marchio Apple come del marchio Harley Davidson sta nel configurarsi come alternativi al mainstream, normali moto carenate o computer Microsoft che siano, fino a essere facilmente riconoscibili e originali.
Questa lunga ricerca qui brevemente riassunta presenta certamente dei punti problematici, e non può essere considerata totalmente soddisfacente. Ha però l’innegabile pregio di aprire un campo di indagine nuovo e dalle prospettive interessanti. Sebbene le risposte possano essere parziali, i due ricercatori hanno il merito di aiutarci a riflettere sul fatto che dietro ad un aggettivo come “cool” (un analogo discorso si può fare anche su aggettivi come “divertente”,”noioso”, “affascinante”…) ci siano una serie di caratteristiche che non possono essere racchiuse, troppo frettolosamente, nell’ambito della soggettività, ma che fanno parte del nostro modo di agire e pensare. D’altronde non facciamo molta fatica a capire cosa sia “cool” e cosa non lo sia.