Il premio Nobel Paul Krugman in “The Age of Diminishing Expectations”, nel lontano 1994, scriveva: “ La produttività non è tutto, ma nel lungo periodo è più o meno tutto. L’abilità di un Paese di aumentare nel tempo lo standard di vita dipende quasi interamente dalla capacità dello stesso di incrementare nel tempo la quota di output prodotto per lavoratore”. Produttività, dunque: sembra essere questa la chiave del successo che porta alla crescita. Non è altro che la capacità di un Paese di usare efficientemente il capitale e la forza lavoro a disposizione per creare una data quantità di produzione ed è di fatto l’indicatore maggiormente utilizzato per definire la capacità di un Paese di generare crescita economica. A parità di tecniche di produzione e di macchinari utilizzati, infatti, il percorso di crescita di due Paesi può essere quindi molto differente.
Nel 2012, secondo gli ultimi dati stilati dall’OCSE, la quota di PIL per abitante prodotta nel nostro Paese ha raggiunto quota 33.117 US $, leggermente al di sotto della media OCSE, ma ben il 60% in meno rispetto a quello degli Stati Uniti. Secondo il “Rapporto sulla competitività dei settori produttivi” stilato dall’ISTAT, la produzione industriale nel nostro Paese ha subito una diminuzione tra il 2007 e il 2013 di 24 punti percentuali, paragonabile solo a quella registrata in Spagna e pari al 30%. Nel resto d’Europa, benché la congiuntura economica abbia generato un trend negativo, le riduzioni sono state più contenute: -14.9% in Francia, – 12,8% nel Regno Unito e – 2,8% in Germania. E quindi l’Italia rimane fanalino di coda anche per quanto riguarda la produttività congiunta di capitale e lavoro che tra il 1992 e il 2011 è cresciuta solo dell’0,4%: insomma, il mondo è andato avanti, ha investito, innovato e noi siamo rimasti a guardare.
Benché il PIL sia l’indicatore che meglio coglie la performance economica di un Paese, è necessario considerare che non è altrettanto in grado di esprimere nè il benessere della società, nè la qualità di vita della popolazione. Inoltre, il PIL non tiene conto, per ovvi motivi, nè della quantità di prodotto riconducibile al lavoro nero, nè di quell’insieme di attività non monetarie, come ad esempio il volontariato, che nel nostro Paese stanno assumendo un’importanza sostanziale: le organizzazioni no profit hanno registrato dal 2001 un incremento del 28% e il loro numero è destinato a crescere soprattutto a causa della crisi dei sistemi di welfare e della quantità di risorse sempre più scarsa destinata a cultura, sport e ricreazione.
La letteratura economica sul PIL si divide sull’argomento sin dal 1934, anno in cui Simone Kuznetz, colui a cui è attribuita la paternità del PIL, esprimeva in seno al Congresso Americano le obiezioni sopra discusse. Solo in anni recenti si è iniziato a pensare al grado di sviluppo sostenibile e alla qualità di capitale umano come indicatori alternativi per la misurazione del benessere e del progresso sociale. Di fatto l’HDI (human development index) utilizza l’aspettativa di vita, il numero medio di anni di istruzione ricevuta e il PIL per tenere conto rispettivamente dello stato di salute della popolazione, del livello di educazione e dello standard di vita. L’Italia nel 2013 si è posizionata al 25esimo posto a livello mondiale per quanto concerne l’indicatore di sviluppo umano, lasciandosi alle spalle paesi come Qatar e Lussemburgo, i quali sono ai primi posti mondiali in termini di PIL pro capite annuo.
Un 22esimo posto abbiamo conquistato in seno all’EPI (Enviromental Performance Index), l’indicatore che misura la capacità di un Paese di proteggere l’ecosistema e la salute umana dai danni ambientali. Anche in questo caso i Paesi con cui siamo soliti confrontarci, Germania, Svizzera e Spagna, occupano le prime posizioni dimostrandoci che anche da questo punto di vista abbiamo di fronte a noi ampi margini di miglioramento.
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