Facendo zapping in TV vi sarà sicuramente capitato di imbattervi in qualche pubblicità che vede come protagonista un personaggio famoso, basti pensare al volto di George Clooney da anni associato alla Nespresso oppure ad un più nostrano Fiorello nei (discutibilmente) comici spot della Wind. Davanti all’esercito di testimonial che nell’ultimo periodo ha invaso il panorama pubblicitario italiano l’opinione dei professionisti si spacca. Testimonial si? Testimonial no?
Nei casi sopracitati la testimonianza pubblicitaria sembra allontanarsi sempre di più dalla sua essenza primordiale, che dovrebbe esprimere il messaggio “io ho scelto questo prodotto e sono soddisfatto… lo sarai anche tu!”. I vantaggi della tranquillità e della riduzione dell’incertezza portati da una testimonianza fattiva sembrano cedere il passo all’emulazione degli stili di vita dei vip (o presunti tali).
Questa strategia creativa cerca di cavalcare e di sfruttare la monocultura televisiva del nostro paese, cercando di sfruttare, o meglio sperando di sfruttare, una proprietà transitiva: che la notorietà del testimonial aumenti la notorietà di marca. Il ricorso, quasi ormai sistematico, al testimonial da parte di alcune grandi aziende sembra quindi un qualcosa dettato più dalla necessità di collegare il proprio marchio al volto noto del momento che da una fondata analisi strategica e di coerenza tra target e rappresentitività del testimonial stesso.