Quella Passione Tutta Italiana Per La Cronaca Nera

Con l’arrivo dell’estate i palinsesti televisivi nostrani mutano radicalmente. I grandi classici dell’approfondimento e le colonne portanti delle varie reti vengono solitamente sostituiti da programmi decisamente più soft e meno impegnativi.

In questa estate 2014, le certezze dei palinsesti e delle pagine dei giornali sono principalmente due, e rispecchiano perfettamente le passioni del popolo italiano: il calcio e la cronaca nera. Oltre ai seguitissimi Mondiali di calcio trasmessi dalla prima rete nazionale, possiamo constatare che la cronaca nera è ancora onnipresente nella maggior parti delle reti. Nell’ultimo periodo però, i social network sono stati invasi da lamentele riguardanti lo spazio eccessivo che i media dedicano alle tragedie. E se è vero che molti social sono lo specchio di quello che pensano gli utenti, c’è da chiedersi per quale motivo non c’è ancora stata un’inversione di tendenza.

La risposta si chiama share, un fattore che dovrebbe spingerci a fare un po’ di autocritica e abbassare il dito puntato nei confronti dei programmi di cronaca nera. Nel mondo dei media funziona così: a ogni azione corrisponde una reazione. E l’unico modo in cui il pubblico può rispondere è proprio in termini di share, dato indicativo e insindacabile di ciò che il pubblico vuole. Dunque le lamentele e l’atteggiamento di superiorità nei confronti di questo genere non corrispondono al reale interesse del pubblico. Ma come si è arrivati a tutto questo?

Negli ultimi anni ci sono stati cambiamenti nell’approccio alla notizia, che hanno inevitabilmente trasformato il modo di fare informazione. Grazie alle nuove tecnologie la comunicazione è sempre più veloce, e nel mondo dei media si crea una gara di velocità che spesso non è sinonimo di qualità: la fretta nella divulgazione di una notizia, troppo spesso ne “violenta” la credibilità. Il problema oltre alla velocità, è sicuramente la necessità di raccogliere i dettagli da qualsiasi fonte disponibile per nutrire la morbosità dello spettatore. Avviene così un cinico processo di svisceramento del caso per far uscire i dettagli più scottanti, arrivando così alla spettacolarizzazione della notizia. Vengono calpestati brutalmente i confini che dividono la sfera pubblica da quella privata, e l’ambito giudiziario si confonde con quello mediatico trasformando i tribunali in studi televisivi.

Per quale motivo però gli italiani si interessano di cronaca nera? Principalmente per un legame di “distanza e vicinanza”. Quando viene commesso un omicidio, veniamo continuamente sommersi di dettagli intimi riguardanti la vittima. Dai ricordi d’infanzia alle parole dei vicini di casa, dalle immagini di un luogo intimo come una camera da letto ai soprannomi che venivano dati in famiglia. Questi dettagli della vittima ci fanno conoscere una persona a tal punto da far scattare in noi un meccanismo di affezione. D’altra parte, il non legame con la vittima ci impedisce di venire colpiti in prima persona da questa tragedia che “poteva capitare a noi” ma fortunatamente non è capitata. Questa vicinanza e lontananza attrae e accende nel pubblico il piacere voyeurista.

Lo spettatore ama le storie controverse e vede nella cronaca nera i tratti di un romanzo. L’accanimento mediatico non avviene con tutti i casi di cronaca del nostro Paese, ma con quelli che presentano tratti romanzeschi da renderli notiziabili. Pensate ai processi mediatici più seguiti degli ultimi anni. Il delitto di Cogne, ad esempio, accendeva i riflettori su un problema delicato come la depressione post-partum, un caso tanto seguito da bloccare un Paese intero davanti al fermo immagine degli occhi di Anna Maria Franzoni e rendere nazional-popolare una domanda come “può davvero una madre uccidere suo figlio?”. Pensiamo all’omicidio di Sarah Scazzi e alla telenovela infinita e macabra che ha per protagonisti proprio i familiari della quindicenne di Avetrana, che hanno inchiodato allo schermo milioni di italiani basiti dalle continue accuse e provocazione degli zii della vittima. Pensiamo alle supposizioni fatte sull’omicidio di Garlasco, quando in mancanza di prove l’Italia intera si scagliava contro Alberto Stasi e il suo atteggiamento glaciale e distaccato. Riflettiamo sul processo mediatico per eccellenza, quello di Perugia, in cui erano presenti tutti i tratti del romanzo perfetto: un contesto tranquillo e quasi assonnato che dopo l’omicidio e dopo le indagini sulle abitudini dei protagonisti diventa automaticamente un luogo di perdizione e di festini alcolici universitari. Colpi di scena continui ed errori da parte della polizia, ma soprattutto personaggi ambigui e misteriosi che hanno ammaliato il pubblico da incantare persino John Grisham, stimato autore di gialli, che ha dichiarato più e più volte che Amanda Knox, indagata per l’omicidio di Meredith, potrebbe essere il personaggio perfetto per un suo romanzo.

I social diventano un’agorà virtuale dove tutti diventano criminologi, mentre i potenziali assassini vengono intervistati e pagati come vip dell’orrore. Le conseguenze di questa tendenza nei confronti della cronaca nera sono dunque disastrose, ma è necessario razionalizzare. Non è certamente questo genere ad essere “malato” e non lo sono nemmeno i media che provano a raccontarla.

Nel 2014 moltissimi Paesi vivono ancora drammi sconosciuti al resto del mondo, per colpa di una cultura sbagliata e della mancanza di informazione. Parlare, approfondire, discutere di omicidi, mafia, violenze sulle donne, traffico di bambini, è un dovere e un sinonimo di civiltà, poiché la comunicazione obiettiva e reale non può fare altro che accendere i riflettori sui problemi del nostro Paese. La rappresentazione mediatica della giustizia ha il dovere di facilitare la comprensione di alcune sfaccettature del caso e di sensibilizzare l’opinione pubblica, e non deve e non può disorientare lo spettatore. Nel momento stesso in cui l’informazione lascia il posto a una folle morbosità di dettagli, la cronaca nera diventa una caricatura di se stessa, perdendo così la sua funzione sociale e la necessaria credibilità, diventando mero business.

Le interpretazioni prive di fondamento aumentano il rischio di allontanarsi dalla verità e di venir meno a un doveroso spirito di collaborazione nei confronti della giustizia e di rispetto verso tutti i protagonisti di queste vicende. Accade troppo spesso che l’omicidio diventi solo un dettaglio nella vasta copertura mediatica di questi casi, a discapito delle vere vittime. Ed è un dovere morale, sia del pubblico che dei media, evitare che questo accada.