La scia di sangue che ha avuto inizio poco più di venti giorni fa con la decapitazione del giornalista americano James Foley e con l’esecuzione, a soli sette giorni di distanza, del collega Steven Sotloff, entrambi vittime dello Stato Islamico, è solo l’ultimo tassello di un puzzle che ha condizionato la recente politica estera di molti stati impegnati nelle cosiddette zone calde del mondo.
Fatti che non sono passati inosservati sotto la lente dell’opinione pubblica e che hanno portato i vertici internazionali a interrogarsi su quanto sia realmente giusto trattare il rilascio degli ostaggi con i terroristi. L’intricato dualismo tra moralità e strategia militare ha portato le grandi potenze internazionali a dividersi secondo due schieramenti ben delineati sull’atteggiamento da assumere nelle circostanze in cui un proprio cittadino venga rapito in territori ostili.
Così, se da un lato troviamo l’intransigenza americana e britannica di non voler scendere a patti con chi cerca di arricchirsi sulla pelle di innocenti, rischiando talvolta il sacrificio di vite umane, dall’altro troviamo una politica europea opposta, che negli anni si è sempre mostrata incline ad assecondare le richieste economiche dei rapitori.