Per ogni artista, od aspirante tale, arriva sempre il fatidico momento in cui scegliere tra la passione per l’arte e la sicurezza di un impiego tradizionale.
Charles Bukowski, il noto poeta e scrittore statunitense che avrebbe poi dato vita al filone letterario della Beat Generation, prima di accettare nel 1969 l’offerta della Black Sparrow, lavorò presso un ufficio postale di Los Angeles.
Bob Dylan, cantautore americano e figura chiave dei movimenti di protesta degli anni sessanta, prima di lasciare la città natale di Hibbing, nel Minnesota, per raggiungere la scena musicale del Greenwich Village di New York, lavorava presso il negozio di elettrodomestici del padre.
Allo stesso modo, Richard J Aarden, cantautore italiano di origini olandesi, dopo un breve passato da studente di ingegneria gestionale al Politecnico di Milano, è stato in grado di ascoltare le proprie intime pulsioni naturali. In quest’intervista vi raccontiamo come il giovane artista, dotato di un sano senso di sacrificio – elemento raro tra i membri delle nuove generazioni – abbia consapevolmente scelto l’arte.
Quand’è che hai incontrato la musica per la prima volta?
Ai tempi delle medie, quando sei obbligato a scegliere uno strumento. Ho avuto la fortuna di avere un’insegnante che ci faceva scegliere tra chitarra e pianoforte, anziché il flauto. Ed io scelsi la chitarra. Dopodiché presi lezioni per quasi tre anni, per poi iniziare a suonare il basso in una band. E’ stata una passione che è nata, e ho saputo poi maturate, prevalentemente da me. Nessuno in casa era appassionato.
E invece quand’è che hai capito che quello che dovevi fare nella vita non era l’ingegnere bensì il musicista?
Diciamo che ancora adesso non è che l’abbia proprio capito. La passione per la musica mi ha spinto fin da subito a vivere su due binari: studi, però pensi alla musica, e mentre pensi alla musica pensi che devi studiare. Conclusa l’università mi sono ritrovato nel mondo del lavoro. Era il momento delle grandi scelte. Poi mi sono detto che se non ci provavo adesso non lo avrei mai fatto, e quindi c’ho provato. E per adesso va abbastanza bene.
Questa consapevolezza è stata il prodotto di un lento processo di maturazione o è arrivata come un’illuminazione divina?
Direi che è stato più un processo di maturazione. Una spinta che ti cresce dentro piano piano, fino a che non capisci che è arrivato il momento di darle sfogo. Quando, una volta tornato a casa, tutto quello che vorresti fare è metterti al computer per provare una nuova traccia, o preferisci non uscire la sera per suonare, allora ti rendi conto che c’è qualcosa che non va.
O qualcosa che va.
Esatto (ride).
Una scelta coraggiosa se si pensa alle precarie condizioni che caratterizzano le vite dei musicisti di oggi. E’ stato difficile mettere in conto quest’aspetto?
Diciamo che non è stato semplice. Quello che ho fatto è stato lavorare per almeno un anno, per mettere da parte un buon gruzzoletto, ed organizzare le spese stilando una sorta di piano budgeting. Se poi la musica mi darà da campare tanto di guadagnato, altrimenti troverò qualcos’altro che mi permetta di autofinanziarmi.
Questo punto mi preme particolarmente. Quindi ti autofinanzi in toto?
Si si. In toto.
Un segno di grande maturità, rispettabile e condivisibile.
Fa parte del mio carattere. Se devo fare una cosa preferisco farla da solo.
L’autoproduzione rimane quindi la migliore risposta per chi vuole affacciarsi al mondo della musica?
Dipende. Anch’io su questo tema mi trovo combattuto. Da un lato autoprodursi è sicuramente più bello per la parte creativa. Puoi completamente dedicarti alla traccia, perderci tutto il tempo che vuoi, arrangiarla, aggiungerci ogni minima virgola. Registrare in uno studio ti permette di essere tecnicamente più preciso grazie ad un’acustica calibrata. Ma sei limitato nei tempi, almeno che tu non sia l’artista che si prende quattro mesi di studio a 600 milioni di euro.
Si può ancora vivere facendo musica, o si vive con il sogno di far musica?
Si vive più con il sogno. Però è bello (ride). E’ un bel sogno.
Spostiamoci nello specifico sul tuo genere musicale. Mi è venuto naturale definirti come una sorte di “musico sacerdote” che ha celebrato quest’unico sposalizio tra due consorti, la EDM (Electronic Dance Music) e l’Indie-Rock Acustico. Le due parti erano consenzienti a prendere matrimonio o è stato un matrimonio combinato?
In realtà c’era già una strada segnata in questo ambito. E’ stato tuttavia un connubio che è venuto naturalissimo. Non ho dovuto forzare niente. E quando non devi forzare è lì che nascono le cose belle.
Erano già innamorati i due, quindi…
Son cresciuto ascoltando prevalentemente punk rock e indie rock. Poi, durante gli anni universitari, avendo smesso di suonare nella band, mi avvicinai alla musica elettronica. Ho sempre avuto il difetto – perché lo considero tale – di ascoltare un po’ di tutto. E quindi le influenze sono arrivate da diversi generi. Alla fine la mia passione originaria rimane la musica acustica, che si è sposata bene con le influenze elettroniche che avevo ricevuto in quel periodo.
L’aver studiato ingegneria gestionale, come può aver influito, se l’ha fatto, sul tuo modo di fare musica?
Ingegneria mi ha aiutato ad acquisire una forma mentis. Son sempre stato un personaggio che viveva tra le nuvole, questo percorso formativo mi ha aiutato ad inquadrarmi, e probabilmente mi ha aiutato a cercare i contatti nella maniera giusta, e ad approcciarmi in modo più preciso alla promozione della mia musica. In fondo, è come mandare un curriculum ogni giorno. Ogni volta che qualcuno ti ascolta.
Il 20 di Giugno è appena uscito il tuo ultimo EP “A Dying Breed”. Ti vedremo mai dal vivo?
Ho deciso di preparare live prevalentemente acustici per il momento. Tralascio la parte elettronica finche’ non trovo il giusto setup che mi permetta qualcosa in più oltre a far partire una backing track. Dovrei cercare qualche data al più presto.
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