Su quest’ottica è giusto che si basi ancora l’educazione del futuro: formare le menti prima delle professioni. Ma il mondo cambia, la tecnologia avanza, e le parole assumono significati sempre più sfumati, sino a dissolversi per evolvere e diventare qualcosa di nuovo. Viviamo in un’era in cui la conoscenza è acquisibile con un click, in cui i calcoli più complessi vengono fatti da una calcolatrice in un battito di ciglio, in cui è cambiato il ruolo di ciò che siamo abitutati a dare per scontato.
Se quarant’anni fa educare significava insegnare fisica, legge, medicina o qualsiasi altra disciplina, tra altri quarant’anni probabilmente tutto questo potrà essere imparato tramite la futura versione del computer o dello smartphone (chissà se si chiameranno ancora così). Che ci piaccia o no, il tempo dei libri come fonte di apprendimento sta giungendo a termine, e con sè anche il ruolo che oggi ha la classica figura dell’insegnante come pozzo di scienza da considerare a mo’ di Bibbia.
E’ finito il tempo in cui possiamo ancora chiamare cultura ciò che in realtà è puro nozionismo. Spirito critico, nel senso di capacità di criticare ciò che prof e libri spacciano per verità assoluta e indiscutibile, anche con un un senso di sfida, persino con un pizzico di arroganza se accompagnata da sana curiosità, iniziativa, partecipazione, senso morale, capacità di argomentare, dibattere, ascoltare, e, infine, aver voglia di fare e realizzare devono essere i principi cardine di una nuova rivoluzione educativa.