L’industria cinematografica italiana ormai da tempo ha scelto – comprensibilmente – di rimanere in porti sicuri, garanzia di incassi certi, tra cinepanettoni e commedie di facile lettura, in grado di strappare sorrisi ad un pubblico continuamente subissato da notizie allarmanti. L’anno appena trascorso, però, ha segnato una vera inversione di tendenza: il ritorno dei registi italiani cosiddetti d’autore ha riportato l’attenzione del mondo cinematografico all’Italia. Per citarne alcuni, si pensi a Tornatore, “La migliore offerta”, a Pasolini, “Still Life”, ad Andò, “Viva la libertà!”, ed, infine, a Sorrentino, “La grande bellezza”; tutti con un discreto, quanto inaspettato, successo di pubblico e soprattutto di critica.
Ed è proprio quest’ultimo l’emblema del ritrovato successo. Con all’attivo 3 Fiocchi d’argento, 4 riconoscimenti agli EFA (European Film Adwards), il Premio della critica a Cannes, il recentissimo Golden Globe – che l’Italia non otteneva dal ’89 – come miglior film straniero, le candidature ai Bafta e ai Goya, “La grande bellezza” avanza verso una sempre più probabile nomina per il premio più importante al mondo, l’Oscar. Ma si sa, nonostante l’evidente apprezzamento internazionale, “nemo propheta in patria”. Il film di Sorrentino è stato infatti tacciato di essere eccessivamente pretenzioso (un forte ammiccamento alla “Dolce vita” felliniana), criticato per via di un intreccio difficile, privo di trama, e per aver rappresentato in modo stereotipato la società romana e quindi italiana. Appunti di per sé leciti, che però lasciano trapelare un certo snobismo di quella parte della critica molto spesso appartenente al mondo qui messo alla berlina.
Sebbene discussa, la pellicola fa emergere in tutta la sua potenza la Bellezza italiana, generata dal contrasto agro-dolce tra impareggiabili architetture storiche e quartieri lasciati al degrado, personalità di spicco appartenenti all’intellighenzia del paese affiancate a grotteschi cialtroni: la perfezione annoia, il bello è generato dalla contraddizione, dall’umanità. Umanità che, per quanto celata dietro mille orpelli, il disilluso protagonista Gambardella possiede. Il modaiolo giornalista di costume è un personaggio profondamente superficiale, condannato ad una sensibilità tale da decidere di rinunciare alle emozioni, mai in grado di soddisfarlo davvero. Il girone dantesco di Sorrentino ospita sì dannati impenitenti, ma anche mancati “spiriti magni”, tutti accomunati dall’edonismo come unica consolazione. Non c’è biasimo, né compiacimento nella lente della telecamera, solo una riproduzione realista di ciò che la società le offre: una regia forse amorale, ma onesta.
Una volta tanto, all’estero hanno trionfato la complessità della sceneggiatura e la meravigliosa singolarità dell’Italia. Sogghigna Gambardella: “So’ belli i trenini delle feste, so’ belli perché non vanno da nessuna parte!”. Questa volta pare, invece, che nel rispetto del classico paradosso italiano, il trenino sia decisamente arrivato lontano.