Raffaele Mauro, pesarese di nascita, negli anni ha avuto la possibilità di conoscere diverse realtà accademiche e imprenditoriali. Laureato in economia, ha conseguito un PhD in Economic History in Bocconi e un Master in Public Policy con specializzazione in Enterpreneurship e Venture Capital presso la John F. Kennedy School of Government di Harvard. Negli anni ha coperto posizioni in diverse realtà inerenti la sfera del Venture Capital, come Annapurna Ventures, Oltre Venture, P101 fino alla posizione attualmente ricoperta di Innovation Manager presso Intesa Sanpaolo.
Raffaele, qual è stato il tuo approccio al mondo del Venture Capital?
“Ho più domande che risposte, nel settore in cui operiamo c’è sempre bisogno di imparare ed evolversi. Durante il mio percorso lavorativo ho avuto la fortuna di approcciare questa realtà vivendo il venture capital da investitore, da imprenditore, e da attore privilegiato dell’ecosistema dal momento che mi sono trovato a fondare varie startup e a contribuire a importanti eventi in questo ambito. Penso quindi a tal proposito di avere una visione a 360 gradi anche dopo aver vissuto due anni a Boston e ancora prima tre mesi a Mountain View in California”.
Quali sono i tratti che definiscono e determinano una startup di successo fra le moltissime che stanno nascendo in questi anni?
“Il presupposto di fondo è che non c’è una singola formula magica per creare startup di successo dal momento che ci sono ingredienti fuori controllo e non prevedibili. Tuttavia in Italia si possono individuare due “play” più facili da sviluppare rispetto ad altri: il primo è il rinnovamento, grazie alle forme digitali o all’innovazione tecnologica dei settori tradizionali che hanno avuto grande successo in passato e che ancora sono conosciuti e riconoscibili a livello planetario come eccellenze italiane. Si può parlare in questo senso di food, fashion o turismo, settori che si prestano all’ingresso di tecnologia e innovazioni, schema già applicato con successo in passato da startup di successo come Yoox o prima ancora Venere, che così facendo hanno realizzato exit importanti. Il secondo tipo è legato invece alle eccellenze italiane nell’alta tecnologia; noi abbiamo punte nella meccatronica, medical technology e altre nicchie ad alta specializzazione dove reggiamo il passo con altri ecosistemi di investimento, ricerca e sviluppo più elevati. Ci sono poi altri settori in cui è più difficile operare, sebbene sia necessario sottolineare che quello italiano è un contesto particolare, con un mercato piccolo e inusuale proprio perché si fatica a ritrovare la strutturazione di fondo che esiste altrove”.
Ma il consiglio di fondo quale sarebbe: scappare dall’Italia o restare qui?
“Ci sono progetti per cui ha senso basarsi in Italia, altri per cui è fondamentale trovarsi negli ecosistemi più sviluppati ed altri in cui è possibile partire dall’Italia per poi espandersi globalmente. E’ possibile fare arbitraggio tra Italia ed estero sfruttando quanto c’è di buono sia qui che fuori. In Italia è possibile accedere a fattori di produzione ad alta qualità, ad esempio il capitale umano, con efficienza di costi. Quindi ha senso per molte società pensare in ipotetico di fare il primo miglio qua in Italia per poi espandersi e cercare fortuna fuori dai nostri confini”.
Da investitore quale è la prima cosa che guarda in una società? Cosa importa di più in assoluto?
“Guardo ciò che è raro, le risorse scarse, che sono essenzialmente tre: traction, competenze tecniche e spirito imprenditoriale. Traction significa capacità di fare progressi su alcune metriche; la traction è l’oro e spesso e volentieri manca nonostante la voglia crescente di creare startup negli ultimi anni. Meglio di qualsiasi presentazione, meglio di qualsiasi pitch, quello che è raro è vedere un tasso di crescita mensile degli utenti, delle revenue e così via: è la cosa più importante e consiste proprio nella capacità di dimostrare che cresci e fai progressi costantemente. La seconda cosa sono le competenze tecniche, spesso sottovalutate al giorno d’oggi. Le persone non capiscono infatti che fare una società digitale efficace è difficile senza la presenza di almeno una persona interna al team con competenze di sviluppo software. Riuscirci altrimenti non è impossibile ma sensibilmente più difficile perché l’esperienza insegna che le chance di successo diminuiscono di un ordine di grandezza. Se lo sviluppo viene esternalizzato le possibilità di successo si riducono drasticamente.
Lo si può dimostrare?
“Uso una metafora partendo dal concetto di lean startup. Il modo con cui funziona oggi un’azienda è simile a un esperimento scientifico: nella scienza hai un’ipotesi e interrogando la natura, in base alle sue risposte, verifichi e nel caso modifichi l’idea di partenza. Il meccanismo della lean startup è lo stesso: si fa un test a basso costo, veloce e agile sul mercato e poi aggiusti il tiro in modo ricorsivo. Tuttavia se non hai le competenze tecniche all’interno del team il tutto si inceppa immediatamente perché per fare anche solo piccole modifiche si sarà costretti a ritrattare un nuovo contratto con il fornitore che si occupa dello sviluppo”.
Parlava invece di spirito imprenditoriale. Cosa intende esattamente con questo concetto?
“Con spirito imprenditoriale intendo la capacità di arrangiarsi, quello che in inglese si definisce resourcefulness, ovvero la capacità di realizzare cose quando hai meno tempo, meno soldi, meno persone e meno cose di quanto avresti effettivamente bisogno. L’imprenditore è quello che ti tira fuori il risultato quando non è nelle condizioni; quando tira fuori valore e risorse in modo originale quasi dal nulla”.
E il mercato di riferimento?
“E’ un tema importantissimo ma lo metto un gradino sotto. Quando fai l’investitore ragioni in modo macro sui mercati e sui tassi di crescita rischi di seguire il herd behaviour, ossia la dinamica della folla. Chi ragiona solo in questo modo lo scopre troppo tardi mentre chi è bravo coglie il punto di transizione quando la cosa è ancora abbastanza di nicchia ma sta già passando verso la crescita esponenziale. Alcuni degli investitori che stimo di più al mondo sono tra coloro che hanno capito che il bitcoin era un qualcosa di importante, una discontinuità tecnologica fondamentale sulla quale scommettere quando per gli altri membri della comunità finanziaria rappresentava solo frode, truffa e criminalità”.
Come fa da investitore a valutare un imprenditore ex ante, prima di vederlo in azione?
“Innanzitutto non si giudica l’imprenditore ma il team, sebbene spesso ci sia una persona che è il motore propulsivo. Si valuta a partire da piccoli elementi grazie e soprattutto all’esperienza che ti insegna. E’ molto utile avere più interazioni per monitorare la situazione e i trend di crescita di chi devi osservare”.
E invece quali sono i criteri con cui gli investitori italiani valutano le società?
“Basti dire che i fondi di venture capital sono un po’ come le Pmi, strutture piccole in cui conta moltissimo la personalità dei managing partners. Quindi ogni fondo ha le proprie idiosincrasie, le proprie antipatie e le proprie preferenze. Per un imprenditore è molto importante conoscere il background dei managing partners: in alcuni fondi dove tutti i membri arrivano dall’Investment Banking e consulenza sarà particolarmente opportuno porre attenzione alla strutturazione delle proiezioni finanziarie mentre un gruppo di ex imprenditori guarda lo sviluppo effettivo di prodotti/servizi e la crescita di mercato o ancora fondi composti da ingegneri per i quali i brevetti possono essere elementi fondamentali. In sintesi, l’influenza nella personalità specifica dei partners è sempre un ingrediente rilevante”.