Talvolta non bastano abbondanti giacimenti petroliferi, clima mite e terreno fertile per fare le fortune di un paese, come sembra dimostrare in modo eloquente il caso del Venezuela, nazione a cui la natura ha mostrato una enorme generosità, generosità resa però inutile dall’incapacità gestionale degli uomini. All’oggi, la situazione economica e sociale risulta essere disastrosa: c’è una endemica ed estremamente grave penuria di alimenti di prima necessità e di medicinali, l’inflazione ha raggiunto a novembre di quest’anno la cifra record del 784.5%, i prezzi sono cresciuti del 500%, le strutture sanitarie sono estremamente carenti di mezzi, la sicurezza è funestata da fenomeni di micro e macro criminalità su vasta scala, e le violente tensioni politiche spingono inquietantemente verso la guerra civile.
Su un quadro del genere si è abbattuta inoltre l’espulsione del paese dal Mercosur, decretata il 10 dicembre per violazioni dei diritti umani e inadempienze degli accordi economici presi. Considerando, come già accennato, che il Venezuela dalla natura ha avuto tutto quello che potrebbe desiderare uno Stato per costruire una economia prospera e una società evoluta, bisogna inevitabilmente considerare la storia contemporanea di questo paese latinoamericano per individuare le origini di quella cattiva gestione dell’economia che lo hanno portato oggi sull’orlo del baratro.
Venezuela, una crisi che viene da lontano
La crisi del ‘29 ebbe effetti rovinosi sull’economia venezuelana. Per ovviare ai danni provocati dal crollo di Wall Street, i presidenti che governarono in quegli anni guidarono una transizione dell’economia del Venezuela, che già prima della crisi passò dall’essere agricola al divenire prevalentemente estrattiva, affidando le sue sorti agli ingenti giacimenti di petrolio presenti sul suolo nazionale. Nel corso degli anni ’30 e ’40 la presidenza di Eleazar López Contreras portò ad una serie di riforme includenti un miglioramento delle condizioni di vita dei lavoratori e una maggiore democratizzazione della vita del paese, inoltre, con lo scoppio della Seconda guerra mondiale l’accresciuta domanda internazionale di petrolio rese possibile il finanziamento di diverse opere pubbliche. Nel ’43 veniva inoltre varata una riforma delle attività estrattive che nazionalizzava gli oleodotti, aumentava le royalties ad un sesto del totale della produzione, stabiliva una durata delle licenze di sfruttamento di massimo quarant’anni e obbligava le compagnie petrolifere straniere a raffinare l’oro nero sul territorio nazionale. Dalla riforma del ’43 l’economia del paese si legò strettamente alla produzione del petrolio, e negli anni successivi il paese conobbe un riordinamento delle funzioni dello Stato in senso organizzativo e verso lo sfruttamento degli introiti legati al petrolio.
Nel ’59 il presidente Betancourt alzò al 65% il prelievo che lo Stato venezuelano attuava sui profitti delle compagnie petrolifere operanti nel paese, e grazie alla stabilità del prezzo del petrolio il Venezuela negli anni ’50 e ’60 conobbe una crescita del PIL del 6% annuo, mettendo inoltre in atto una riforma agraria di tipo redistributivo e riuscendo a mantenere in attivo la bilancia dei pagamenti. Nel ’61 il Venezuela fu uno dei paesi fondatori dell’OPEC, e con il golpe di Muhammar Gheddafi in Libia nel ’69 il prezzo del petrolio aumentò, mentre in contemporanea le autorità venezuelane stabilivano che lo Stato si riservava il diritto di decidere unilateralmente la percentuale di esazione sulle attività estrattive delle compagnie estere. Già negli anni ’70 ben il 92% dell’export venezuelano era legato al petrolio, risorsa che inoltre garantiva l’87% delle riserve di valuta del paese e il 67% del gettito dello Stato, il tutto in un contesto in cui il prezzo del barile era in costante ascesa anche a causa della guerra del Kippur del ’73. L’aumento degli introiti permise ai governi dell’epoca di finanziare un sistema di welfare State, senza però risolvere i gravi squilibri interni e soprattutto senza mai diversificare l’economia venezuelana, ancora oggi legata esclusivamente alle attività estrattive. Nel ’75 il governo di Carlos Pérez nazionalizzò tutti i giacimenti del paese senza alcun indennizzo per le compagnie petrolifere, e il gettito dell’erario in seguito a tale misura raddoppiò. L’alto prezzo del petrolio consentiva il varo di politiche di spesa, e fece rimandare incoscientemente delle decisioni che in ambito economico sarebbero state necessarie, quali una riforma agraria e una diversificazione nell’economia, che in quegli anni sarebbe stata resa possibile dagli elevati introiti del petrolio.
Gli anni ’80 segnarono la prima seria battuta di arresto per l’economia venezuelana. Un modello di sviluppo basato sulla mono esportazione del petrolio e che per la vendita del barile faceva affidamento per il 50% al mercato statunitense patì i suoi primi cortocircuiti con gli alti tassi di interesse delle due presidenze Reagan e con l’austerity messa in atto dagli Stati Uniti, misure che fecero crollare il prezzo del barile, disintegrando quindi il perno sul quale si orientava tutta l’economia del Venezuela. La mancata differenziazione e l’assenza di una riforma agraria fecero sì che nel ’89 il 52% dei venezuelani si trovò sotto al livello di povertà (situazione che nelle campagne riguardò ben l’89% della popolazione rurale), mentre l’inflazione dal ‘86 galoppava di un 30% annuo, raggiungendo nel ’89 il 90%. Lo Stato fu costretto nel ’85 a farsi carico del debito privato, divenuto anch’esso insostenibile. Il paese era allo stremo, e le pesanti critiche rivolte alle amministrazioni del paese e agli Stati Uniti resero quantomeno pensabile una svolta populista e nazionalista. La prima avvisaglia si verificò nel febbraio del ’92, quanto un giovane colonnello dei paracadutisti di nome Hugo Chávez tentò senza successo un colpo di Stato di orientamento nazionalpopulista. Nel frattempo, le politiche neoliberiste del presidente Rafael Caldera, comprendenti la liberalizzazione dei tassi di interesse, dei prezzi e delle tariffe fecero sprofondare nel 1998 l’80% della popolazione nella povertà e aumentare la disoccupazione. Nelle elezioni presidenziali del 1998, soprattutto a causa della grave situazione socioeconomica, il trionfo arrise al Movimento Quinta Repubblica guidato da Hugo Chávez, che aveva un programma marcatamente populista che faceva riferimento alle funzioni redistributive dello Stato, all’avversione agli Stati Uniti e alla lotta alla corruzione che caratterizzava la politica nazionale.
L’azione del governo di Chávez toccò diversi aspetti dell’economia del paese, intervenendo direttamente per favorire la produzione agricola, varando nel 1999 la ley de Desarrollo Agricola che prevedeva una ridistribuzione delle terre e incentivi statali in ambito tecnico per i proprietari, fallendo però nell’intendo di sottrarre il Venezuela dalla forte dipendenza dal mercato alimentare internazionale, e intervenendo nel 2001 nel settore degli idrocarburi tramite la ley de Hidrocarburos, che oltre a stabilire che era lo Stato ad avere assoluta sovranità sui giacimenti petroliferi venezuelani, ampliava tale sovranità anche ai settori dell’estrazione, della prospezione e della raffinazione, pur ammettendo joint ventures non superiori al 49%. Compagnie petrolifere private potevano ottenere licenze di sfruttamento della durata di 25 anni, ed erano tenute a corrispondere il 35% del prezzo al dettaglio sui consumi interni e il 30% dei prezzi correnti allo Stato. Nei suoi primi anni di presidenza, il crollo del prezzo del petrolio rese impossibile il varo di programmi troppo dispendiosi, mentre in politica estera vi fu un avvicinamento tra il Venezuela e paesi tradizionalmente ostili agli Stati Uniti, quali la Libia di Gheddafi e Cuba. Nel 2002 le tensioni interne al paese crebbero fino al colpo di Stato messo in atto dall’opposizione e da parte dell’esercito, che fallì grazie alla fedeltà di parte dell’esercito e alle massicce manifestazioni di piazza in favore di Hugo Chávez. L’anno dopo, anche a causa di tale situazione interna, il PIL crollò a – 7%.
La risalita
Il periodo di recessione dell’economia venezuelana iniziato con la decada perdida degli anni ’80 potette dirsi concluso nel 2004, anno in cui il PIL crebbe del 17%, aumento dovuto principalmente ad una ripresa del prezzo del barile. L’anno successivo il PIL crebbe di un 9%, la bilancia commerciale chiuse in verde e l’inflazione si abbassò fino a toccare appena l’8%. Nel 2007, alla vigilia della crisi mondiale, il PIL cresceva del 1% annuo e l’inflazione si attestava attorno al 26%.
La crescita del Venezuela subì una battuta di arresto in occasione della Grande recessione del 2007/2008, riuscendo però a recuperare nel 2011, anno che vide il PIL crescere del 4%. Nel frattempo, però, l’inflazione aveva ripreso a crescere vertiginosamente già nel 2010, in contemporanea con un generale aumento dei prezzi al consumo.
La ricaduta
Complessivamente si può dire che alla morte del presidente Chávez, avvenuta nel 2013 a causa di un cancro, diversi indicatori sociali inerenti le percentuali di analfabetismo, di copertura sanitaria e di popolazione al di sotto del livello di povertà fossero migliorati, in un contesto che però iniziava a mostrare le prime crepe dovute al calo del prezzo del petrolio, aspetto che denota eloquentemente come nemmeno in quindici anni di presidenza sia stata messa in atto in modo soddisfacente quella diversificazione dell’economia del Venezuela, paese ancora sostanzialmente legato ad un modello mono estrattivo e di esportazione del petrolio completamente dipendente dall’andatura del prezzo del barile sul mercato. Inoltre, non si era andati a fondo nel risolvere le gravissime problematiche legate alla corruzione, esistente su tutti i livelli della società venezuelana, e alla criminalità, piaga che ha reso Caracas una delle città più pericolose al mondo. Per far fronte ad una simile situazione economica, il successore di Chávez Nicolás Maduro avrebbe dovuto mettere in atto una serie di misure impopolari che politicamente non poteva permettersi, avendo fatto leva sulla continuità tra le sue azioni di governo e quelle del suo predecessore. Nonostante la stabilizzazione del prezzo del barile, nel 2014 il PIL venezuelano crollò a – 3%, il debito estero aumentò del 8% e i prezzi al consumo aumentarono, mentre il paese precipitava in un vortice inflazionistico al quale l’esecutivo non è tutt’ora riuscito a trovare alcun rimedio. Nel 2015 l’agenzia Moody’s declassò il debito venezuelano, definendolo ad alto rischio e degradandolo da CAA1 a CAA3, mentre il PIL scese a – 7%. Con il 2016, la situazione economica del paese sembra giunta al capolinea: l’inflazione ha raggiunto il 784.5% (e che secondo diversi analisti potrebbe raggiungere il 1000% prima della fine dell’anno), la popolazione sotto il livello di povertà ha raggiunto l’80% del totale, e i beni di prima necessità e i medicinali sono diventati introvabili. In un contesto così catastrofico si deve aggiungere l’alta tensione politica che vede una opposizione a Maduro sempre più attiva ed articolata, che è sfociata in manifestazioni di piazza non di rado degenerate in violenti scontri con le forze di sicurezza. Non bisogna inoltre dimenticare che una certa deriva autoritaria, già presente durante la presidenza di Chávez, non è del tutto assente nel governo di Maduro. Risulta ad ogni modo difficile prevedere cambiamenti in positivo nella situazione venezuelana, che se potrà a fatica non superare la sottile linea rossa che la separa dalla guerra civile difficilmente però porterà ad un recupero economico.
Il vero problema del Venezuela
Nel complesso non è errato affermare che l’origine dei mali per quanto riguarda l’economia del Venezuela sia da cercare nella mancata diversificazione nella produzione che nessun governo ha mai messo seriamente in atto, lasciando in eredità ai governi successivi una crescita fortemente condizionata dal prezzo del petrolio, che la rendeva di conseguenza estremamente dipendente dalle oscillazioni del mercato. Inoltre l’agricoltura venezuelana non è mai stata messa realmente nelle condizioni di coprire il fabbisogno alimentare interno, anche in questo caso per l’assenza di un piano riformista realmente incisivo. Paese strutturalmente debole, il Venezuela ha inoltre patito enormemente la corruzione e la criminalità, fenomeni che da sempre lo hanno funestato e a cui nessun presidente è mai riuscito a mettere mano. Dato tale quadro, è difficile incolpare esclusivamente una gestione del paese per il disastro al quale oggi è andato incontro, per quanto i lunghi anni di presidenza di Hugo Chávez gli avrebbero forse consentito di intervenire più incisivamente nel campo della diversificazione, mancanza però imputabile a tutti gli esecutivi venuti dopo il passaggio da una economa agricola ad una estrattiva avvenuta nei primi due decenni del Novecento.