Il nome Pink Tax nasce dalla considerazione che il rosa sia il colore femminile per eccellenza. Tuttavia, tale nome risulta fuorviante poiché non si tratta di una e vera propria tassa, ma di un rincaro di prezzo che non entra nelle casse dello Stato bensì in quelle delle aziende private che implementano questa pratica. A causa della Pink Tax le donne spendono in media il 7% in più solo per i beni e i servizi di uso comune.
La problematicità di questa pratica è data dall’assenza di sostanziali differenze nelle caratteristiche dei prodotti e dei servizi offerti che possano giustificare le discrepanze di prezzo applicate. Infatti, l’unico determinante del prezzo è il genere del consumatore che è profilato attraverso distinzioni nel prodotto finale quali colore, fragranza, packaging e stile di marketing. Inoltre, in alcuni casi, la “versione femminile” presenta caratteristiche inferiori, meno funzioni o quantità di prodotto, nonostante sia più o ugualmente costosa.
L’industria del personal care è quella che applica il mark-up più elevato, tale per cui le donne arrivano a pagare fino al 13% in più rispetto agli uomini. Alcuni dei prodotti sui cui la Pink Tax è applicata sono gli shampoo che arrivano a costare il 48% in più rispetto a quelli “maschili”, i rasoi (11% in più) e i bagnoschiuma (6% in più).
Anche i servizi non sono esenti da tale sovrapprezzo, nonostante la loro apparente neutralità al genere. Tra questi: le polizze dei mutui (0.4% in più per le donne), i servizi medici (8% – tra essi le spese odontoiatriche, le medicine digestive e le calze da compressione), l’assicurazione della macchina e l’acquisto di una macchina usata (2%).
Il punto di inizio del dibatto globale in merito a questa pratica è lo studio condotto nel 2015 dal Department of Consumers Affairs della città di New York: “From Cradle to Cane: The Cost of Being a Female Consumer”.
Si tratta di un’analisi di più di 90 marchi di settori diversi e su circa 800 dei loro prodotti, con il fine di comparare la versione “femminile” a quella “maschile” di uno stesso bene. Lo studio ha dimostrato che in media ogni donna paga almeno $1400 in più di un uomo a causa degli effetti della Pink Tax.
Nonostante l’analisi fosse focalizzata solo sulla città di New York molti dei marchi presi in esame sono internazionali e rivendono online, dimostrando come la Pink Tax abbia una natura e un impatto globale. In Gran Bretagna, per esempio, i pink products arrivano a costare il 37% in più.
In Italia un recente studio di Idealo (2020) ha raccolto per la prima volta i dati in merito a questa pratica nel nostro Paese. L’analisi registra che i profumi femminili costano in media il 27% in più, mentre i deodoranti addirittura il 51.1%. Anche le bicilette per il semplice fatto di essere rosa e, per questo, automaticamente considerate come “da femmina” arrivano a costare il 6% in più, come se le ragazze avessero bisogno di una bicicletta specifica e diversa rispetto ai ragazzi.
La necessità di intervenire sulla Pink Tax è potenziata dal fatto che colpisce ugualmente tutte le donne. Infatti, non dipende dallo stile di vita e dalle scelte di consumo della singola ma è imposta sulla maggior parte dei prodotti di uso quotidiano, come se si trattasse di beni di lusso.
Una delle argomentazioni utilizzate da coloro che non riscontrano problematicità nella Pink Tax è che basta evitarla optando per i prodotti blu. Tale prassi può sicuramente rappresentare un buon punto di inizio; tuttavia, evitare ogni effetto della Pink Tax non risulta fattibile per la singola consumatrice.
In primis una donna non dovrebbe sentirsi forzata all’acquisto di prodotti che non rispecchiano le sue preferenze o le sue esigenze, ma che sono pensati per soddisfare quelle maschili.
In secondo luogo, gli studi dimostrano che le donne possono essere vittime di bias impliciti che le inibiscono dall’acquisto di prodotti blu poiché associati all’altro sesso. A rendere il tutto più difficile vi è anche il fatto che gli equivalenti prodotti blu sono a volte disposti in aree diverse del supermercato per disincentivare la comparazione dei prezzi durante l’acquisto. L’esistenza della Pink Tax si collega, inoltre, all’evidenza che le donne tendono ad essere giudicate maggiormente per il loro aspetto fisico e, perciò, sono più propense all’acquisto di prodotti e servizi rosa anche se più costosi.
La Pink Tax risulta, perciò, tristemente inevitabile per le singole consumatrici.
Un’azione da parte delle istituzioni per sanzionare questa pratica non è solo auspicabile ma l’unica possibile per l’eliminazione delle Pink Tax e per una società che possa garantire l’uguaglianza di genere.
Asia Parmeggiani