“L’intelligenza artificiale causerà più dolore che felicità.” Jack Ma, fondatore e CEO della nota azienda Alibaba ed imprenditore di indubbio successo, è celebre per le sue esternazioni controcorrente riguardo il fare impresa e riguardo l’uso delle tecnologie in azienda. Sul blog Econopoly del Sole 24 Ore, la struttura di un’industria 4.0 viene descritta come una sorta di triumvirato: ci saranno un uomo, un cane ed un’intelligenza artificiale. Il cane dovrà semplicemente controllare che l’uomo non faccia nulla.
Questo scenario semi-apocalittico, è supportato da tendenze oggettive. Vi è una forza lavoro sempre più “grigia” dal punto di vista anagrafico e sempre meno aggiornata riguardo l’uso di tecnologie non sia in grado di sopportare l’impatto di questa rivoluzione. è molto più che una semplice previsione: la Job disruption provocata dall’arrivo dell’intelligenza artificiale si appresta a diventare realtà. Per dare consistenza numerica a questa tendenza, basta leggere uno studio condotto da Forrester, società americana leader nelle ricerche di mercato, che fornisce il seguente quadro: entro il 2021 il 6% dei lavoratori americani sarà sostituito dall’AI, partendo dai servizi di customer care e di guida autonoma.
Questo “6%” fa pensare immediatamente ad una maggiore competizione per il posto di lavoro e ad una crescente necessità di specializzazione in materie tecnico-scientifiche da parte dei giovani, che dovranno sviluppare competenze sempre maggiori per poter lavorare e rimanere risorse valide sul mercato. Il vero problema di questa rivoluzione, però, è un altro: come ricollocare quel 6% di forza lavoro? Quanto conteranno la capacità cognitiva, la sensibilità e le doti umane di ciascuno di noi?
La risposta a al primo interrogativo può sembrare scontata: con la formazione sia in età scolare sia durante la vita lavorativa di ciascuno (il cosiddetto life-long learning), per scongiurare il rischio di obsolescenza del personale attivo e prevenirlo per le generazioni più giovani. La chiave per il successo nel mondo del lavoro, quindi, sarà dotarsi non tanto di competenze specifiche, quanto di strumenti che permettano di acquisire competenze sempre nuove durante tutto l’arco della nostra esistenza. Perché questo cambio radicale? La risposta sta in quest’affermazione di Andrea Dusi, 45 enne imprenditore ed esperto in AI, dal quale mi sono sentito ripetere che la nostra generazione “dovrà cambiare almeno 10 lavori, 9 dei quali ancora non esistono”. Di che tipo di competenze dotarsi, quindi, in un mondo sempre più tecnologo e tecnologico? Sicuramente una parte importante verrà giocata da chi risulterà in possesso di competenze tecniche e informatiche, ma è facile comprendere che le discipline umanistiche acquisiranno un ruolo di primo piano nella definizione degli orizzonti e nella risoluzione delle problematiche etiche entro i quali permettere alla tecnologia di operare. Citando un articolo del Guardian “noi non possiamo programmare le menti umane, tuttavia i computer sono menti programmate dall’uomo”: alle generazioni giovani, quindi, spetta l’onere di confinare l’uso dell’AI in maniera da migliorare sempre più la nostra condizione. Si fa largo, da oggi ed in maniera sempre più dirompente, la necessità di saper pensare in modo critico ed autonomo. Tale bisogno può essere parzialmente soddisfatto, ad esempio, da corsi di studi filosofici ed umanistici, snobbati dalla maggior parte degli studenti negli ultimi anni o semplicemente coltivando il gusto per l’arte, la creatività e la bellezza in generale.
Si delinea, quindi, uno scenario radicalmente differente da quello in cui siamo abituati a vivere, caratterizzato soprattutto da ampi rischi a livello socioeconomico: se questa transizione dei modelli di apprendimento da “passivi” ad “attivi” non venisse adeguatamente supportata, il rischio concreto è quello di produrre una massa enorme di inattivi, con una diminuzione del reddito vertiginosa, consueta causa di tensioni e disagi sociali. Uno studio condotto su un campione negli USA mostra che la dipendenza da eroina è tre volte più frequente in chi guadagna 20.000$ al mese rispetto a chi guadagna 50.000$. Il divario tra le due condizioni sociali, quindi, incide sulla salute mentale e sui problemi di dipendenza. L’altro dato importante che emerge da questo campione è, inoltre, che esiste correlazione tra la condizione economica e l’impossibilità di avere una rete di relazioni familiari stabili. Successivamente, sono stati seguiti i percorsi di vita del campione in questione: la notizia rilevante che emerge è che esiste una forte correlazione tra lo stabilizzarsi delle proprie condizioni economiche prima ed affettive poi, seguite, in molti casi, dall’arrivo di un figlio e l’interruzione dell’utilizzo di sostanze stupefacenti.
Una minima stabilità economica, quindi, è condizione necessaria per poter condurre una vita serena; di qui un interrogativo sorge spontaneo: la felicità è ancora possibile? Assolutamente sì. Oltre al dovere di sognare, però, avremo quello di fortificare le nostre competenze e la nostra capacità di pensiero critico, coltivando le nostre passioni e la nostra sete di cultura.
Alberto Piva