“Il dolore sospeso” di Maria Antonietta D’Onofrio

Il passato ha il sapore delle cose preziose. A volte.
Ele probabilmente non la pensa così. Ele Onora, Onora Ele, non è mai stata bambina, ha cercato di essere madre di se stessa, affogando in un disperato bisogno di aiuto.
“Il dolore sospeso”, titolo dell’ultimo romanzo di Maria Antonietta D’Onofrio, moglie, madre, medico, scrittrice, pone immediatamente un interrogativo, un muro oltre il quale cercare una visuale, quella di una rinascita, un nuovo sguardo da incrociare. Si può sospendere il dolore? E’ forse anestetizzando il cuore che si giunge ad una sterile sopravvivenza? All’interno delle pagine ricche di umori e sensazioni contrastanti, un viaggio introspettivo partorito dalle vicende della stessa protagonista, portano il lettore a vivere i suoi stessi tormenti, a tratti con rabbia, tenerezza, con senso di attaccamento alla vita e di ineffabile impotenza. Il dolore non si può anestetizzare, Ele ha imparato a conviverci. Ha imparato ad afferrare tutto l’amore possibile e a riporlo nella parte più latente dell’anima; l’amore di Alba, nata nel tempo dell’ultimo sogno, colei che le ha insegnato a ri-pronunciare il nome “mamma”, a darle la giusta connotazione, a riempirlo di un sentimento benevolo e a dosarlo correttamente nella sua cadenza; conserva le carezze di nonna Ada, che ora danza tra i ricordi della vecchia soffitta. La stessa soffitta in cui ha trovato una finestra sul passato, quello che lei non ha mai vissuto. Una storia che viaggia su più corsie e vede toccare corde tragiche e disperate, situazioni estreme di violenza, di fragilità umana, fino al famoso baratro da cui si crede di non poter più sollevarsi.
Madre è chi ti mette al mondo o chi ti accoglie? Chi ti compra i colori per disegnare l’arcobaleno o chi ha da offrirti soltanto il grigio spento dei suoi occhi? Una figlia non riesce, non può, rinunciare all’amore di chi le ha dato la vita, all’affetto di chi l’ha messa al mondo, per errore o forse come opera migliore della propria esistenza. Pertanto, “Il dolore sospeso” è un romanzo che, attraverso ampie descrizioni pone riflessioni circa i bisogni dell’animo umano, senza dimenticare il contesto e ciò che esso può offrire; profumi di tradizioni a volte percepiti sotto forma di guscio, in cui ripararsi o da cui ribellarsi. Un messaggio colmo di responsabilità, un insegnamento che scardina la cronaca più attuale e ci lascia inermi di fronte all’umanità più spoglia, il bisogno incondizionato di essere compresi, il bisogno di continuità. L’attesa, di una carezza, di una dolce parola e di un abbraccio diventano motivo di ricerca, di cammino, mediante una speranza incompiuta, non appagata. Tra i paesaggi e le figure retoriche, il lago con la sua acqua plumbea che rappresenta, allegoricamente, l’oscurità e il dolore estremo da cui si può uscire, a testa alta. “La capacità di ogni uomo alla sopravvivenza può trasformare l’intrasformabile”. Sorgono, dunque, connessioni ai concetti primordiali legati alla vita: che cosa significa essere un genitore e perché si hanno naturali aspettative nei confronti di chi ci mette al mondo, nonostante tutto?
E’ così che Maria Antonietta D’Onofrio ci offre accurati strumenti per rispondere alle domande che albergano tra le pagine e, probabilmente, dentro ognuno di noi, servendosi del binario di un treno fermo a una stazione, malfamato, che accoglie anime rotte nel cuore della notte e va verso una miriade di luoghi; in un paese del sud con le sue caratteristiche e le sue consuetudini, fino all’universalità del mondo che accomuna ogni latitudine del suo perimetro. Ele, in ogni angolo, cerca una resurrezione, un nuovo punto di partenza, per fuggire da un inizio non degno della sua storia. Da un mostro che abita i suoi pensieri più bui, quelli più grandi della sua stessa età. Ele è alla ricerca del suo nome, da sempre abbreviato, che deve riscuotere il suo Onore. Ele Onora, come le ha insegnato Alba, la stessa che scandisce la genesi di un nuovo giorno. Di una nuova vita. A ricordare al mondo che, dopo l’oscura notte, le prime luci tornano a mostrare la retta via anche ai cani randagi. Quelli solo un po’ più liberi.
A voi, 207 pagine di un dolore vivo ma sospeso. Un viaggio attraverso assenze e cerotti da strappare. Un viaggio che deve essere raccontato, a voce alta.

Grazia Di Maggio

Classe 1994. Si laurea con lode in Linguaggi dei Media presso l’Università Cattolica di Milano. Stage, collaborazioni, esperienze nel mondo del giornalismo, del sociale e delle istituzioni, una specialistica in Politiche Europee ed Internazionali per allargare il proprio background. Curiosa per passione e stacanovista per deformazione, vive alla ricerca di nuove sfide, stimoli e opportunità che possano arricchirla. Nel tempo libero… ops, cos’è il tempo libero?

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