Intesa Sanpaolo vuole Ubi Banca: quell’operazione di sistema per una banca di sistema

ubi, intesa

Dicono che ai piani alti di Ubi Banca, per essere precisi a Bergamo e a Brescia, ci sia stato un grosso scossone il 18 Febbraio scorso, quando Intesa Sanpaolo, durante la notte, ha lanciato un’offerta pubblica di acquisto proprio sul ex gruppo popolare; un’operazione che si aggira ad un valore di quasi 5 miliardi di euro.

Intesa, che ha manifestato il proprio interesse a sorpresa, ha offerto l’emissione di 17 azioni proprie ogni 10 azioni di Ubi, una mossa non concordata tra i rispettivi consigli di amministrazione e quindi considerata nettamente ostile.

Non se lo aspettavano proprio i soci di Ubi Banca riuniti nel Car di vedersi ipoteticamente sottrarre il controllo della banca dopo appena 6 mesi di comando: a Settembre dello scorso anno, i cinque grandi azionisti bergamaschi erano usciti dal precedente “Patto dei Mille” dei bresciani, costituendo il Comitato Azionisti di Riferimento (Car) con dentro la Fondazione della Banca della Lombardia e la Fondazione Cassa di Risparmio di Cuneo.

Era crollato quel castello di carta su cui si erano retti per oltre un decennio gli equilibri territoriali tra le due “piccole” Brescia e Bergamo, dove la seconda però ha sempre subito lo strapotere della prima.

Improvvisamente durante la notte, l’asse di comando di Ubi da Brescia si è spostato a Bergamo con la partecipazione di Cuneo.

Se l’operazione di Intesa oggi andasse in porto, gli azionisti del Car, il patto parasociale che controlla oggi e governa Ubi Banca con circa il 17%, si troverebbero con la quota più che dimezzata, un peso in assemblea di estrema minoranza e di conseguenza un mancato un ruolo operativo nella banca.

Nonostante il repentino cambiamento dello scenario economico, il vertiginoso crollo in borsa di entrambi gli istituti e le innumerevoli opposizioni da parte dei soci di Ubi, l’operazione ha proseguito il suo iter e nelle scorse settimane l’assemblea dei soci di Intesa ha approvato con una maggioranza bulgara la proposta di aumento di capitale a servizio della manovra su Ubi.

Ubi Banca, che negli ultimi dieci anni si è trasformata radicalmente da semplice banca popolare ad un vero gruppo bancario internazionale, principale punto di riferimento delle realtà popolari in Italia, ha suscitato le mire espansionistiche di diverse banche, alcune anche estere.

Dopo il 2007, per unione tra le Banche Popolari Unite e la Banca Lombarda e Piemontese, è nato il gruppo Ubi Banca, caratterizzato sempre da uno stampo cooperativo e popolare, poi nel 2015 il gruppo si è trasformato in società per azioni e via via incorpora le banche popolari di Bergamo, Brescia, Ancona e Torino, diventando un importante punto di aggregazione bancario con un patrimonio che oggi si aggira sui 126 mld €.

Per tutto il 2019, Ubi è stata reclamata come la vera salvatrice di Mps, infatti, la possibile fusione tra i due istituti, trovava l’accordo e la sponsorizzazione del Mef, ma negli ambienti dell’ACRI con in fila il presidente Giuseppe Guzzetti e quelli di Intesa Sanpaolo con Giovanni Bazoli l’idea di fondo era quella di sfuggire all’operazione. E così è stato fino ad ora.

Curioso come la storia cambi negli anni, ma i protagonisti restino sempre gli stessi.

All’origine della fusione tra Banca Intesa e Banca Sanpaolo, voluta proprio da Bazoli ed Enrico Salza, ci fu proprio il mancato accordo tra Intesa e Mps dovuto al mancato via libera da parte di Siena, oggi invece, è la stessa Intesa Sanpaolo a bloccare l’ipotetica fusione tra Mps e Ubi.

Victor Massiah, uno degli artefici della nascita di Banca Intesa (aggregazione tra Banco Ambrosiano Veneto e Cariplo), alla guida di Ubi Banca fin dalla sua costituzione, oggi si trova ad essere preda della stessa banca che ha contribuito a fondare.

Pur di evitare che Ubi fosse preda di qualche gruppo estero come Bnp Paribas o di qualche salvataggio di interesse nazionale, Intesa, dopo aver fiutato l’affare, è intervenuta.

Il gruppo oggi guidato da Messina pensa in là e il grande salto vuole farlo con un’operazione di sistema. Per quale ragione, Intesa si muove in questo momento per un’operazione così grande?

Negli ultimi dieci anni, l’attività tradizionale degli istituti di credito è sempre stata più difficoltosa, la redditività degli impieghi sia per mutui sia per prestiti sono ormai un lontano ricordo, come d’altronde il ritorno sui gli stessi titoli di debito; il pesante deterioramento dei crediti e il loro deleveraging hanno contribuito a bruciare capitale, facendo ridurre drasticamente i margini di interesse dell’industria bancaria.

Con tassi di interessi pari allo zero (per via delle politiche espansive della BCE) e tensioni geopolitiche sempre crescenti, le banche sono state obbligate a snellire le loro organizzazioni, a prendere atto che la loro industria non è più labour intensive (solo nel 2019 secondo Bloomberg in Europa si sono tagliati 65.000 posti di lavoro), a ripensare radicalmente i modelli di business, lasciando i risultati del trading sempre più deludenti, a favore degli investimenti nell’insurance, nel private e family banking e nella digitalizzazione dei processi.  Il gruppo Unicredit ha stimato un risparmio di 150 mln di € in costi l’anno con l’implementazione della banca paperless da qui al 2023, solo per citare un esempio di attuazione di quella disruption tecnologica che sta trasformando profondamente il business.

Da questa profonda ristrutturazione e ripensamento del sistema bancario italiano, che a tratti ha assunto, come abbiamo visto sopra, quello di una macelleria sociale, chi ne è uscito più che rafforzato è stata proprio Intesa.

Ha infatti ottenuto negli ultimi anni buoni indicatori economici: cost/income ratio stabile al 50% (la media italiana è di dieci punti più alta), utile adj sopra i 2mld di € ed un’ottima patrimonializzazione di capitale, rendendola per cinque anni di seguito, la banca più solida in Italia. Anche nella tempesta economica causata dal Covid-19, Intesa si conferma come punto di riferimento nell’erogazione del credito alle famiglie e alle imprese con 2 mld di nuovi finanziamenti e con sospensioni a favore dei clienti per circa 22 mld €.

A Unicredit non è andata benissimo, la ormai ex gemella milanese di Intesa, che ha come soci di maggioranza  fondi esteri e non più fondazioni bancarie ha sofferto parecchio: perdita sopra i 2 mld€ nel trimestre, forte riduzione del perimetro del gruppo più che una sua espansione, calo del margine di intermediazione e nessun M&A previsto nel piano 2020-2023, che probabilmente andrà rivisto entro Settembre. Infine forti anche le cessioni core della banca per far cassa, come Fineco, Pioneer, alcune controllate estere e soprattutto la quota in Mediobanca, che ha scatenato l’entrata di Del Vecchio proprio in questi giorni.

E’ Intesa Sanpaolo oggi la vera banca di sistema presente in Italia e l’unica assieme ad Ubi ad aver promosso un’aggregazione costante del settore bancario attraverso una continua crescita esterna: i primi passi con le piccoli incorporazioni delle Casse di Risparmio di Firenze, di Terni, di Viterbo e di Rieti, poi il primo grande salvataggio con le popolari di Vicenza e di Veneto Banca.

Raggruppare gli istituti di media e piccola taglia era uno degli obiettivi promosso già dal Governo di Renzi con la riforma delle popolari, così come anche la fusione tra BPM e Banco Popolare, che si fece nonostante gli sparigliamenti e gli impedimenti di una parte del mondo bancario che proponeva un’operazione tutta su Milano tra Ubi e BPM.

Intesa e Ubi oggi sono le due ultime grandi banche rimaste in mano alle fondazioni bancarie, sinonimo di garanzia di investimenti solidali, di erogazioni costanti al territorio e di quell’idea che alla base dell’economia e della finanza di investimento c’è la sostenibilità. Intesa Sanpaolo oggi è controllata dalla Compagnia di San Paolo e dalla Fondazione Cariplo, Ubi Banca dalla Fondazione di Cuneo e dalla Fondazione della Lombardia.

Il brusco no dei soci di Ubi, come abbiamo visto arriva in maggioranza dalle fondazioni di Ubi e, nell’ombra dell’operazione bancaria più grossa in Italia, si profila così un antico scontro tra Torino e Cuneo, dove la prima preme per un rafforzamento del sistema bancario e quindi una maggiore peso della fondazione stessa come azionista, la seconda lamenta la sottovalutazione del valore patrimoniale di Ubi e la sua probabile diluizione della quota con la fusione.

L’obiettivo è creare il settimo gruppo bancario in Europa con la più alta presenza sul territorio italiano nella fattispecie nel nord Italia: il Sole 24 Ore stima sinergie per 730 milioni all’anno tra i due gruppi e dividendi a 6,6 mld di €.

Ubi e Intesa, oltre al mero vantaggio economico, condividono un’importantissima sinergia a livello geografico, poiché operano in aree perfettamente complementari, creando un’unica grande banca nazionale con Torino e Milano da Intesa Sanpaolo, Brescia e Bergamo da Ubi Banca.

Che l’operazione tra Ubi e Intesa sia la realizzazione dell’antico progetto dell’ACRI di avere un’unica grande banca del nord controllata dalle più importanti fondazioni bancarie?

E’ presto per dirlo, quello che è certo, è che sarà il mercato a decidere se Intesa riuscirà ad incassare il consenso di adesione sul capitale di Ubi. Il 50 % più un’azione è solo un numero, il progetto in ballo molto di più.