Il movimento della curva dei tassi di interesse riveste da sempre una certa un’importanza per inquadrare il contesto economico ed indirizzare le decisioni di investimento. Anche se le sue variazioni possono sembrare insignificanti, ogni minimo movimento mette in moto un volano di rilevanti conseguenze.
Recentemente, questo effetto risulta ulteriormente amplificato dalla sensazione di trovarsi in un periodo di profondi cambiamenti, in cui sembra prender forma la diponibilità nel rivedere convinzioni e modelli ormai acquisiti. Non è un segreto che gli operatori si attendono prima o poi, una qualche versione di controllo su tutta la curva dei rendimenti. Mentre, nell’America che si avvicina alle elezioni presidenziali, una parte del partito democratico sembra pronta a sostenere apertamente politiche allineate alla c.d. “Nuova Teoria Monetaria”, formalizzando quanto in parte già in atto da tempo.
Tali idee, che comunque attecchiscono anche su suolo repubblicano, sono sostenute dal fatto che l’inflazione sembra un problema del tutto assente dal mondo contemporaneo.
D’altro canto, soprattutto in Europa, è innegabile che le politiche di espansione messe in campo dal 2008 in poi, non abbiamo “toccato terra”, come dimostra la scollatura tra la crescita della base monetaria, la moneta e il credito all’economia.
Questo ha indotto a credere che le banche centrali possano stampare moneta senza limiti perché le loro azione non sembrano avere effetti negativi sull’economia e possono anzi aiutare a finanziare i disavanzi pubblici. Prospettiva che farebbe cadere qualsiasi remora nel porsi un limite alla crescita dei debiti pubblici e, come tale, molto allettante per la politica.
Ma è davvero possibile pensare che si possa continuare ad aumentare la base monetaria senza che ciò comporti effetti sull’inflazione?
Dall’analisi degli ultimi 15 anni sembrerebbe così, ma ciò non rappresenta una garanzia per il futuro.
Non è questo il contesto in cui approfondire le ragioni per cui l’aumento della base monetaria non si sia tradotto in inflazione, a noi basti sapere che uno degli aspetti si può sintetizzare col termine “fiducia”. E provo a spiegare il concetto con il caso inverso, quello cioè di mancanza di fiducia che si verifica quando chi riceve moneta cerca si sbarazzarsene il prima possibile perché pensa che in breve tempo perderà valore. Questa è l’inflazione che mai vorremo, quella della repubblica di Weimer per intenderci.
Ma se dunque oggi nutriamo fiducia nella nostra moneta, che ricordo essere “moneta fiduciaria” e cioè non convertibile in oro, non possiamo negare che questa sia stata nel tempo conquistata dall’autorevolezza con cui le banche centrali hanno scacciato i fantasmi del passato. Un’autorevolezza che si fonda (tuttora) principalmente sull’ indipendenza che le autorità di politica monetaria vantano da quelle di bilancio (governi) e che sarebbe spazzata via dall’applicazione radicale di questa nuova ortodossia: le banche centrali diventerebbero uno strumento di politica fiscale.
Certo, come già sta accadendo, si potrebbe ipotizzare che un approccio ibrido rappresenti un’allettante soluzione quanto meno per l’agevole retromarcia che si ritiene possibile semplicemente innalzando il livelli di riserva obbligatoria delle banche (effettivamente al minimo storico). Ma parliamo sempre di esperimenti.
Mentre a scienziati finora ai margini della comunità vengono date le chiavi del laboratorio ed iniziano a cincischiare con provette varie per vedere cosa succede, le grandi banche d’affari iniziano a rivedere in maniera unanime il loro parere sull’oro. Gli uffici studi si sono accorti di suggestive relazioni, confrontando l’andamento dell’aggregato monetario M2 (che comprende la base monetaria) e il valore dell’oro. Hanno scoperto che nel 1980, al culmine dell’ultimo mercato secolare rialzista dell’oro, l’aggregato M2 era di soli 1,48 trilioni di dollari USA, mentre le riserve auree ufficiali degli Stati Uniti ammontavano a 264,6 milioni di once equivalenti alle quotazioni di allora a $ 225 miliardi e cioè al 15,2% di M2. Attualmente le riserve auree ufficiali degli Stati Uniti sono sostanzialmente invariate a 261,5 milioni di once equivalenti a 510 miliardi di dollari ai valori corrente. In rapporto all’attuale M2 di US $ 18,26 trilioni di dollari, significa un 2.8%. Affinché il rapporto riserve auree ufficiali / M2 salga al 15,2%, il prezzo dell’oro dovrebbe salire a circa10,500 USD / oncia.
Sotto il grafico sull’andamento di questa relazione:
Questi sono e restano paragoni affascinanti, ma per tenere i piedi per terra possiamo pensare ad un valore di questo rapporto intorno a 4, livello massimo raggiunto nel 2012 e più volte visto nel corso degli anni. Questo livello equivarrebbe ad un valore dell’oro di 2.800 USD / oncia.
Comunque sia, in un mondo privo di remunerazione sui capitali e con la prospettiva di esperimenti monetari alle porte, anche Warren Buffett, a sorpresa ha appena investito nella azienda mineraria canadese Barrick Gold, probabilmente come compromesso per partecipare ad un mercato, quello dell’oro, da lui sempre ripudiato. Nei suoi famosi discorsi alle assemblee degli azionisti a Omaha, spiegava che investire nell’oro non aveva senso per 2 ragioni. La prima era la mancanza di rendimento e la seconda (meditate) è che “se investi nell’oro vai contro l’America”.
Se questa brezza continuerà a soffiare, il passo successivo lo porterà a rivedere anche la posizione sulle criptovalute. Magari come strumento in difesa di politiche monetarie volte a farci credere che esistano “pasti gratis”.