Passive House: un Nome Brutto per una Casa bella (e Sostenibile)

case passive

La contea di Dún Laoghaire-Rathdown, non lontano da Dublino, ha introdotto questa settimana l’obbligo per tutte le nuove costruzioni di essere Passive House, o case passive. Lo scorso settembre la città di Heidelber, in Germania, ha annunciato che il distretto di Bahnstadt diventerà “passivo”, dopo che i 116 ettari di case, negozi e spazi comuni subiranno gli adeguamenti necessari.

Come questi ultimi due casi dimostrano, l’Europa è da sempre stata la capofila in fatto di costruzioni “passive”. Paesi scandinavi e Germania vantano la maggior diffusione di Passive House: la prima casa passiva certificata è stata infatti quella dell’architetto danese Olav Langenkamp nel 2008, anche se il fenomeno è diffuso non solo tra coscienziosi addetti ai lavori: in Svezia negli ultimi anni diversi complessi appartenenti all’architettura sociale degli anni 70’ (Folkhemmet, letteralmente “casa delle persone”) che avevano bisogno di ristrutturazioni sono stati convertiti.

Secondo il consiglio della contea che ha approvato la mozione, l’iniziativa irlandese avrà un impatto relativamente contenuto, poiché i regolamenti che definiscono i requisiti per le costruzioni in Irlanda sono già piuttosto esigenti. Con condizioni legislative favorevoli come in questo caso, diverse ricerche hanno dimostrato che la differenza di prezzo tra una casa passiva ed una normale si assottiglia man mano che le conoscenze necessarie ad una corretta realizzazione si consolidano e si diffondono.

Queste stesse motivazioni fanno sì che in America le case passive stentino a prendere piede: al contrario che in Europa la legislazione è generalmente più blanda, per cui i requisiti necessari alla costruzione di una casa passiva fanno lievitare le spese e la maggiore differenza di prezzo ostacola il successo di questo modello costruttivo. In aggiunta a ciò, si è conclusa da poco una diatriba interna tra la sede americana del PHI (Passive House Institute) e quella europea, scaturita dalla richiesta della sezione USA di modificare i requisiti alla base della certificazione, per adattarli alle condizioni climatiche più estreme di alcune zone degli Stati Uniti.

Il Passive House Institute è un istituto di ricerca indipendente nato da una collaborazione tra l’università di Lund in Svezia e l’Istituto per l’ambiente e l’edilizia tedesco, il cui primo progetto risale al 1990. Negli anni ha definito una serie di certificazioni (per le costruzioni e i singoli componenti e per i professionisti del settore) che garantiscono il rispetto delle rigide condizioni in base alle quali una casa o un edificio possono definirsi “passivi”.

Le condizioni che fanno sì che una normale casa diventi una casa passiva sono infatti molte: l’edificio deve essere isolato, produrre energia, trattenere calore o frescura a seconda delle stagioni, consumare energia in maniera efficiente. È quindi necessario intervenire su porte e finestre, muri, tetto e fondamenta, oltre che scegliere accuratamente la posizione migliore per l’edificio, munirlo di un impianto di ventilazione e recupero calore etc.

Secondo un documento del PHI, nel 2013 si stimavano 50 000 case passive sparse per il mondo: da allora saranno aumentate, ma al momento non esiste un database che le raccolga tutte. Accumunate spesso dall’utilizzo di legno per i rivestimenti esterni e da forme squadrate, le case passive offrono agli architetti l’opportunità di sbizzarrirsi con creazioni vagamente futuristiche(*), che siano immerse nella natura o meno, comunque sempre ad impatto (quasi) zero.

Gaia Cacciabue per Spazio Economia