Che fosse necessario ricorre a ingenti nuovi debiti dopo una pandemia, non ci sono dubbi, tuttavia per le finanze pubbliche la gestione dell’indebitamento sarà un problema con cui bisognerà convivere per molti anni a venire. Prima di addentrarci nei possibili scenari futuri, è utile dare uno sguardo alla storia dell’Inghilterra e Stati Uniti: nell’arco di quasi 100 anni (1820-1913) la Gran Bretagna passò da un debito sul Prodotto interno lordo del 200% (effetto della guerra con la Francia di Napoleone) al 30% a ridosso della prima guerra mondiale. Al termine della seconda guerra mondiale, nel 1946, sia gli Stati uniti sia l’Inghilterra aveva accumulato rispettivamente un debito del 120% e 270% in rapporto al Pil, per poi riuscire a ridurlo, nel 1975, per gli Stati Uniti al 34% e nel caso dell’Inghilterra al 55%. I cicli dei debiti nazionali coprono decine d’anni, ci sono voluti circa trenta anni per riportare le finanze pubbliche sotto controllo, grazie soprattutto alle condizioni politiche e socio-economiche favorevoli, situazioni totalmente diverse da tempi odierni. Più recentemente altri tre Paesi sono riusciti a ristrutturare il debito: la Norvegia (1999), Singapore (1990) e il Belgio (1995). In Norvegia fu realizzato grazie alle entrate petrolifere accumulate in un Fondo Sovrano; a Singapore attraverso un governo tecnico poco propenso ad ascoltare le lamentele dell’opinione pubblica, ed infine il Belgio, sulla motivazione di entrare a far parte dell’unione europea. Ancora una volta la storia ci racconta di circostanze particolari. Lo scenario attuale è visivamente rappresentato dalla figura seguente:
Viene da chiedersi se sia così importante ridurre il debito, anche in questo caso, ci viene in aiuto nella risposta analizzare la recente storia: il caso giapponese. Il Paese asiatico convive da decenni con un gigantesco debito, tuttavia è altrettanto vero che soffre di una cronica debolezza dei consumi privati e di una scarsità, ugualmente cronica, degli investimenti da parte delle imprese: le aziende accumulano riserve, mentre i privati comprano, con i loro risparmi, titoli di stato. I tassi d’interesse giapponesi rimangono bassi, controllati da continui acquisti da parte della Banca Centrale giapponese, ciò permette di rendere sostenibile il deficit oltre ad accrescere il debito. Il governo giapponese favorito, in questa circostanza, dall’invecchiamento della popolazione rinuncia alla crescita. Questa è la scelta politica giapponese: debole crescita in compenso nessuna austerità e conseguente nessuna riduzione del debito. Politica che quasi nessuno Stato possa permettersi senza pagare il prezzo (molto alto) della rinuncia della forza creativa e propulsiva delle giovani generazioni. Siamo giunti al fulcro della nostra analisi, ma soprattutto alle scelte difficili che dovremmo affrontare nel post-pandemia. Il debito ci pone, prima o poi, difronte ad un bivio: una politica di austerità senza fine, oppure far crescere il PIL. La decisione di quale strada intraprendere sembrerebbe scontata, ma non semplice da implementare. La politica di austerità (aumento delle tasse e diminuzione della spesa) parrebbe essere, dopo questa pandemia, socialmente impraticabile, quindi non ci rimane che far crescere l’economia oppure l’inflazione, in modo che i debiti contratti ora, valgano meno in futuro. La crescita dell’economia fu la risposta applicata alla fine della seconda guerra mondiale grazie ad una situazione demografica favorevole e una crescita della produttività. La posizione attuale mi sembra essere molto diversa per entrambi le variabili, tutte due mostrano segnali di decrescita. Quindi siamo giunti alla penultima scelta (Inflazione), che sembra essere l’unica percorribile. L’ultima chance, la più deprecabile, rimane quella dell’insolvenza. In quest’ultima annovero anche la proposta “creativa”, e con un tempismo alquanto inappropriato, del Presidente del Parlamento Europeo Sassoli: annullare parte del debito, meglio ritengo volesse dire di rendere perpetuo una fetta del debito accumulato. Non è difficile immaginare quali conseguenze ci sarebbe sui mercati finanziari. Torniamo nella scelta fattibile, quella di aumentare l’inflazione: obiettivo che le Banche Centrali rincorrono da anni, attraverso politiche di acquisto dei titoli di stato, purtroppo con scarsi risultati, non si riesce a raggiungere nemmeno il target d’inflazione del 2%. Almeno sino ad ora, la maggiore spesa da parte dei Governi viene più che compensata dalla riduzione di spesa-investimento da parte dei privati e delle aziende. Per raggiungere qualche rilevante effetto nella riduzione del debito si dovrebbe mantenere almeno un tasso d’inflazione tra 5% e il 10% per parecchi anni. Mi risulta difficile pensare che, nel frattempo, le Banche Centrali non intervengano alzando i tassi d’interesse con le conseguenti tensioni sociali-economiche. Nell’ipotesi di una crescita repentina dell’inflazione, ciò comporterebbe grandi perdite ai fondi pensione, assicurazioni e banche, le quali hanno portafogli zeppi di titoli obbligazionari. La strada dell’inflazione è stretta e coloro che saranno alla guida (banchieri centrali) dovranno avere grandi doti, senza dimenticare che la “medicina dell’inflazione” per uscire dalla “trappola del debito” comporta dei “fastidiosi” effetti collaterali: penalizza i risparmiatori, diminuisce il potere d’acquisto dei lavoratori, i consumatori sono meno propensi a spendere, i creditori ci rimettono e i debitori ci guadagnano, nei mercati azionari le società quotate tendono ad essere sopravvalutate (alcune sono già parecchio) mostrando bilanci in crescita tuttavia nella realtà è l’inflazione il motivo della crescita apparente. Nemmeno nel famoso gioco Monopoli è possibile uscire gratis dalla prigione, tanto meno sarà fattibile nella realtà del debito accumulato e poco importa, come nel gioco, se ciò sia dovuto alla carta degli Imprevisti covid-sars2 .