The Revenant: Come Vincere l’Oscar in Poche e Semplici Mosse

Ci siamo, la tanto attesa Notte degli Oscar è volta al termine: domenica 28 Febbraio (alle ore 2,30 italiane) si è tenuta la cerimonia dell’88^ edizione degli Academy Award, portando via con sé, come ogni anno, mesi di pronostici, discussioni, speranze e critiche. E sebbene l’Oscar sia solo uno dei tantissimi premi in ambito cinematografico che vengono assegnati ogni anno (e a detta di molti non quello di maggior spessore a livello artistico e professionale), esso rimane sempre il più chiacchierato e pubblicizzato, simbolo, nell’opinione comune, del massimo prestigio che possa ottenere un attore o un qualsiasi altro professionista del settore. Poco importa che coinvolga quasi totalmente solo la produzione hollywoodiana e che l’offerta cinematografica sia in realtà immensamente più vasta delle 5-6 proposte settimanali dei multisala, ma questa è tutta un’altra storia…
Per lo spettatore della domenica e il pubblico amante dello scintillìo, infatti, l’evento cinematografico dell’anno è stato l’assegnazione degli Oscar e per quest’edizione tutti hanno fatto il tifo per il pluricandidato The Revenant, ultima opera del regista messicano Alejandro González Iñárritu, già vincitore della statuetta d’oro con Birdman nel 2015.
E dunque parliamo anche noi di questo film acclamato da tutti, in primis dai suoi autori, come nuovo capolavoro del cinema contemporaneo. Un film frutto della collaborazione di alcuni tra i professionisti del cinema più ambiziosi e per questo celebre sin dai suoi primi mesi di realizzazione per il mastodontico impiego di risorse e per tutte le controversie sul set dettate dalle severe pretese del regista e dalle sue manie di sfrenato realismo; lavoro monumentale finalizzato, senza troppi tentativi di nasconderlo, alla vincita di quanti più premi possibili e alla permanenza quanto più duratura nel dibattito cinefilo, a tutti i livelli.
E infatti da mesi, tra aneddoti, premiazioni, reazioni di critica e pubblico, The Revenant fa notizia e con le sue 11 candidature all’Oscar e i 3 premi vinti (miglior attore protagonista, miglior regia e miglior fotografia) non cadrà sicuramente nel dimenticatoio a breve.
Insomma siamo di fronte a un fenomeno mediatico la cui principale fonte di alimentazione è stato il “tormentone” degli ultimi anni dalla mancata premiazione di Leonardo Di Caprio con l’Oscar, occasione che dal 2005 in poi l’attore statunitense ha perso tre volte, ingigantendo sempre di più le fila dei suoi accaniti sostenitori, indipendentemente dai suoi effettivi meriti attoriali, indipendentemente dalla consistente lista di altri premi comunque vinti, indipendentemente da tutti quegli attori e registi presenti e passati che, come e più di lui, avrebbero meritato la statuetta d’oro.

In The Revenant troviamo dunque Di Caprio nei panni di Hugh Glass, guida di una spedizione di cacciatori di pelli nel gelido North Dakota, nell’inverno del 1833. La sua storia non è nemmeno delle più originali: appare subito come un uomo di poche parole, saggio e coriaceo poiché ha vissuto per anni nella comunità indiana Pawnee imparando a conoscere e a rispettare la natura e i suoi misteri, e perché proprio in quel villaggio autoctono ha visto morire la sua compagnia di vita, in seguito ad un attacco delle truppe americane.
Dunque solo con il suo unico figlio, superstite all’attacco al villaggio, si presta a guidare spedizioni nelle foreste, nel bel mezzo della battaglia impari tra nativi americani e truppe bianche. Ma quasi subito inizia la carrellata di eventi funesti: una mamma-orso lo attacca riducendolo in fin di vita (e se fino a qui il protagonista era stato di poche parole, da questo momento del film in poi ci accontenteremo solo dei suoi grugniti e gemiti di dolore), il brutale Fitzgerald (Tom Hardy) gli uccide il figlio davanti agli occhi, e poi abbandonato al gelo, senza viveri, ormai prossimo all’essere cadavere, il redivivo, contro ogni legge della natura, animato dalla sola sete di vendetta, guarisce lentamente dalle ferite mortali e si trascina (letteralmente) per miglia alla ricerca di Fitzgerald (perfetto “cattivo”) compiendo alcune gesta eroiche (celebre la notte passata nella carcassa del cavallo, il rafting umano nelle rapide del fiume e il salvataggio della ragazza indiana prigioniera dei francesi) e scampando altre innumerevoli volte alla morte per assideramento, per inedia, per attacco dei vari gruppi armati che incontra, eccetera eccetera eccetera.

Chi assistendo a queste scene grida già al portento, dimentica che recitare non è una dimostrazione di resistenza fisica e che anzi i più bravi attori, probabilmente, non hanno mai compiuto imprese atleticamente più sensazionali dello sbattere i pugni sul tavolo (per il resto esistono gli stuntman) e che sì, si può riconoscere che la performance Di Caprio sia stata ammirevole, ma forse più per candidarlo a partecipare alla “100 km del Sahara” o altre imprese sportive simili, che per l’Oscar.

Ma alla fine, per la gioia di social network e fan, l’Oscar come “Migliore attore protagonista” è arrivato anche per Leonardo Di Caprio e per quanto la sua vittoria fosse attesa (se non quasi scontata), dispiace che debba essere merito di due ore di rantoli, trascinamenti nella neve e altre prove di sopravvivenza, impersonando un personaggio abbastanza inconsistente tra l’altro, piuttosto che per altre sue interpretazioni molto più lodevoli (basti pensare a The wolf of Wall Street).

Ma tornando al film, che in effetti tolta la celebrazione del portentoso protagonista lascia spazio a ben poco altro, è innegabile che anche in questa occasione il direttore alla fotografia Emmanuel Lubezki abbia fatto un lavoro eccellente, deliziando gli spettatori con paesaggi spettacolari, il più delle volte inediti per il cinema. Eppure il problema resta proprio questo: la meraviglia visiva del lungometraggio resta fine a se stessa, poiché non supporta una trama avvincente e ben costruita, e pare, anzi, che si imponga a colmare i vuoti narrativi, rendendo quasi stridenti e fuori luogo i pochissimi dialoghi e le vicende umane raccontate.
A tal proposito è un vero peccato che le storie “di contorno” (principalmente quella del capo indiano alla ricerca della figlia rapita, quella dell’indiano Pawnee compagno di viaggio – per un giorno – di Glass e in generale tutta la vicenda storicamente rilevante e ancora tutta da riscoprire del genocidio dei nativi e dell’espropriazione dei loro territori) vengano solo accennate dal regista in un’ottica tra l’altro molto interessante, abbastanza originale e non scadente in facili moralismi.

Insomma, una buona occasione mancata, che acuisce ancor di più quel senso di inappagamento percepito nei commenti di tanti spettatori una volta usciti dalle sale di proiezione. Tutta questa esaltazione da propaganda, poi, e questo continuo flusso di recensioni e critiche contrastanti non fanno che peggiorare questa diffusa sensazione spiacevole legata al “cult del momento”.
The Revenant, quindi, non ha deluso i pronostici, portando a casa tre statuette e non passerà molto tempo perché si inizi a parlare delle grandi scommesse dell’edizione 2017. E magari, con il passare dei mesi, la bolla di The Revenant si sgonfierà e verrà considerato per quello che è realmente: un film piacevole da guardare e basta.