Questa settimana il Venezuela è comparso su tutti i giornali come non succedeva dai tempi dei coloriti exploit di Chavez. Non tanto per la crisi economica, la mobilitazione militare o il rischio golpe, ma perché la Coca Cola ha detto basta: pur garantendo ai dipendenti uno stipendio di sussistenza (comunque superiore al minimo legale), la Coca Cola ha deciso di sospendere la produzione nello stabilimento venezuelano a causa della carenza di zucchero.
Nell’ultimo periodo la produzione di zucchero in Venezuela è infatti crollata perché molti piccoli produttori hanno deciso di abbandonarla, non potendo far fronte all’aumento dei costi di produzione. Aumento che è dovuto ad un insieme di cause: le restrizioni in vigore dal 2003 in base alle quali è lo Stato a controllare l’assegnazione di valuta estera hanno portato ad una diminuzione progressiva dei beni di importazione, provocando (tra le altre cose) una carenza di fertilizzanti, oltre che di materie prime di ogni genere. A questo si è aggiunto il lungo periodo di siccità, che ha ridotto drasticamente i livelli produttivi, rendendo impossibile la sopravvivenza dei piccoli coltivatori.
Ma la carenza di zucchero non è un caso isolato: la Cerveceria Polar, storico marchio di birra venezuelana (principale attore sul mercato) ha chiuso i battenti in aprile per mancanza di orzo. E le carenze non si limitano ai generi alimentari: il partito di opposizione e le associazioni dei medici venezuelani hanno invocato lo stato di emergenza sanitario a causa della carenza di farmaci, denunciando lo svilupparsi di un mercato nero che in molti casi rappresenta l’unica possibilità per procurarsi i medicinali.
Tutti questi esempi, per quanto rappresentativi della situazione drammatica in cui si trova l’economia venezuelana, non sono sufficienti a rendere la gravità del momento: dal 21 aprile è stato imposto un blackout di 4 ore ogni giorno per 40 giorni, e a partire dal 27 aprile la settimana lavorativa dei dipendenti statali è stata ridotta a due soli giorni per risparmiare elettricità. L’apparato pubblico di per sé rappresenta un vero buco nero: è composto da 2,8 milioni di dipendenti, un quarto della forza lavoro complessiva del Paese.
Il Fondo Monetario Internazionale stima l’inflazione Venezuelana al 481,5% e nel 2015 Caracas è risultata la città più pericolosa al mondo, con il 90% degli assassini che non perseguiti.
Lo spiegare perché si è arrivati a tutto questo necessiterebbe di molto tempo e di un economista più preparato della sottoscritta, ma non serve un luminare per affermare che nel caso del Venezuela scelte economiche miopi si sono combinate fatalmente con condizioni climatiche avverse.
Una politica economica basata al 95% sull’esportazione di petrolio ha sempre rappresentato un rischio folle, e anche senza il crollo del prezzo del greggio le possibilità che il Paese non pagasse le conseguenze di una scelta tanto cieca erano davvero minime.
Gli effetti dell’azzardo economico venezuelano si sono combinati in modo catastrofico con la siccità, che imperversa da tre anni e che ha causato (tra le altre cose) una riduzione gravissima del livello dell’acqua trattenuta dalla diga di El Guri, una delle più grandi al mondo, responsabile per 2/3 dell’elettricità del Paese.
Ma perché il Venezuela dipende così pesantemente da una fonte energetica rinnovabile ma instabile e variabile come l’acqua, quando è lo Stato con più combustibile fossile in tutto il Sud America? Non per istinti sostenibili o lungimiranti: l’importante produzione idroelettrica ha permesso al Venezuela di esportare negli anni scorsi maggiori quantità di petrolio. Addirittura le riserve di gas naturale presenti nel Paese sono state in gran parte impiegate per produrre l’energia necessaria all’estrazione del petrolio stesso, così da limitarne al minimo il consumo nazionale. Perché la scelta di basarsi su fonti di energia rinnovabili avesse potuto dirsi sostenibile si sarebbe dovuto provvedere ad una diversificazione che garantisse sicurezza e costanza alla fornitura energetica del Paese. Basare la maggior parte del fabbisogno energetico non solo su un’unica modalità di produzione, ma anche su un unico impianto, è stata una decisione a dir poco azzardata.
Zapatero e Rivera sono arrivati a Caracas la scorsa settimana per cercare di mediare tra il presidente e l’opposizione, che ha già raccolto più di 2 milioni di firme per convocare un referendum che ponga fine al mandato di Maduro anticipatamente (dovrebbe restare in carica fino al 2019). Come da tradizione Maduro accusa gli Stati Uniti di complottare contro di lui e ha ampliato lo stato di emergenza dando maggiori poteri a forze militari e polizia. Secondo i sondaggi indipendenti il 68% dei venezuelani chiede le sue dimissioni.
Gaia Cacciabue per @SpazioEconomia