Con le borse americane ai massimi e con un ciclo economico ormai giunto al suo record di 121 mesi, naturale che fra gli investitori inizi qualche segnale di malessere da acrofobia.
Ma sui mercati finanziari sposare posizioni inderogabili non è mai stato l’approccio corretto, mentre cercare di avere la lucidità di comprendere ciò che ci accade intorno è l’unico modo per provare a scongiurare cocenti delusioni.
Se è vero, come sostenuto da molti, che i mercati hanno memoria, uno degli strumenti che abbiamo a disposizione per appagare la nostra sete di previsione è lo studio di ciò che è accaduto nel passato e delle analogie con il presente. Proprio alla ricerca di similitudini, proviamo dunque a ritornare indietro di quasi quarant’anni.
Il 20 Gennaio 1981 il repubblicano R.Reagan si insediò alla casa bianca, in un contesto in cui l’inflazione era all’incirca al 12% e la disoccupazione intorno al 8%. Convinto sostenitore della teoria economica basata sulla Curva di Laffer, il nuovo Presidente riteneva che le tasse americane fossero troppo alte, e che una loro diminuzione avrebbe portato a una crescita delle entrate e a maggiori investimenti, con un effetto benefico per l’economia. Già nel 1981 riuscì a far approvare al Congresso una drastica riduzione delle tasse: il 25% in 4 anni. Ovviamente questa politica provocò un forte incremento del deficit che tra il 1981 e il 1982 raddoppiò, aumentando per tutti gli anni ’80 così come il deficit nella bilancia dei pagamenti. Comunque, la diminuzione delle tasse aumentò i consumi e contribuì a invertire la congiuntura economica, e dal 1982 al 1990 gli USA conobbero un periodo di crescita economica ininterrotto. Anche allora come oggi, lo S&P 500 quotava ai livelli record, mai raggiunti prima, di circa 120 punti (ora quota circa 3000 punti) e dopo una vistosa correzione che si protrasse per circa un anno, iniziò una poderosa salita che lo portò oltre i 170 punti nel 1985, anno della rielezione di Reagan. Fu proprio in questo secondo mandato che l’indice diede il meglio di se’ praticamente raddoppiando in 4 anni, forte dell’importante ripresa che conobbe l’economia americana in quel periodo. Nel grafico L’andamento dell’indice S&P500 tra gli anni ’60 –‘95
In quegli anni, il Presidente della Federal Reserve era Paul Volcker, in carica dal1979 su nomina del Presidente democratico Jimmy Carter e riconfermato nel 1983 da Reagan, in seguito però lo sostituirà con Alan Greenspan solo a metà del secondo mandato, nel 1987.
Negli Stati Uniti infatti la durata in carica del presidente della Fed è identica a quella del Presidente degli Stati Uniti, quattro anni, ma poiché i tempi sono inesorabilmente sfasati, accade puntualmente che l’inquilino della Casa Bianca si trovi come dirimpettaio alla Fed un personaggio nominato dal suo predecessore. Vista la situazione economica di quegli anni il compito di Volcker non doveva certo essere semplice: stritolato tra un tasso di inflazione che arrivò anche al 13% e un Presidente alle prime armi che predicava una finanza allegra.
Volcker non poté far altro che attuare una politica monetaria restrittiva, innalzando il tasso di interesse fino al 21,5% al fine di intervenire sull’altissima inflazione. Dopo le inevitabili conseguenze negative iniziali, che portarono la disoccupazione oltre il 10%, la Fed raggiunse l’obiettivo sperato: la stabilità dei prezzi, l’economia che ricominciò a crescere e inflazione che si abbassò fino al 3.2% nel 1983 ( risultati che contribuirono alla rielezione di Reagan). Dal grafico sotto possiamo costatare gli ampi movimenti che il tasso di interesse subì in quegli anni, ma possiamo solo immaginare le enormi difficoltà’ di chi si è trovato ad operare in quel contesto.
Sarebbe quindi probabilmente troppo generoso attribuire alla sola politica reaganiana i meriti del miracolo economico di quegli anni, senza riconoscere che sia stato il risultato congiunto di politiche fiscali e monetarie attuate da due protagonisti che non si sono mai realmente sopportati. Non è eccessivo ritenere che nel sistema americano di pesi e contrappesi, che regolano la macchina del potere Usa, nessuno ha mai provocato tante scintille, eppure prodotto tanti risultati, quanto il rapporto fra Ronald Reagan e Paul Volcker.
Il paradosso era la contrapposizione tra un Presidente repubblicano, in teoria votato all’ amministrazione sana e risparmiatrice, che si scoprì discepolo forzato del deficit spending, e un democratico come Volcker che gli sbarrò la strada, deciso a fare il contrario, cioè a limitare la liquidità nazionale e quindi la spesa pubblica. Inevitabile che dal primo giorno della gestione Reagan, il Presidente della Fed abbia dovuto difendersi da attacchi mediatici (non c’erano ancora i tweet) e da manovre segrete da parte dei sostenitori della supply side economics.
Nella storia del potere americano la dialettica e lo scontro fra l’impero della politica e il papato della moneta è dunque da sempre continua e incessante. Proprio in quest’ottica vanno inquadrate le ingerenze e pressioni che Trump attua nei confronti del ‘suo’ governatore J. Powel (sostituto della mai sopportata Yellen) affinché adotti una politica monetaria più consona all’impostazione della sua politica fiscale. Non dimentichiamo infatti come già in questo primo mandato, Trump sia riuscito ad attuare la riforma fiscale che prevede il taglio delle tasse più’ consistente appunto dai tempi di Reagan. Anche la recente minaccia di colpire nuovamente i prodotti cinesi con nuovi dazi è probabilmente il modo per esprimere il disappunto in merito alla decisione della Fed di abbassare di solo un quarto di punto i tasso di interesse, costringendola a più incisivi interventi nel prossimo futuro.
Fare una passeggiata nel tempo per scoprire analogie con il presente non tanto per il contesto economico che risulta essere profondamento diverso, quanto per l’approccio ideologico volto all’interventismo a tutti i costi e su tutti i fronti di un Presidente che si stà avvicinando da favorito alle prossime elezioni. Ma se risulta realisticamente difficile prospettare per i prossimi anni un nuovo miracolo economico come quello degli anni ’80, il ripercorrere quel periodo dovrebbe suggerirci che nei mercati non vi è mai un troppo alto in termini assoluti (ma sempre e solo relativi). Affrontiamo dunque gli attuali livelli di record degli indici americani con maggior leggerezza ed anche in un contesto complesso come l’attuale, ricordiamoci di non perdere mai la fiducia nell’incredibili capacità di rigenerarsi che l’economia americana ha storicamente dimostrato di avere.