Banche, Non Aprite Quella Porta

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Scorrendo i fiumi di inchiostro versati a proposito della crisi delle banche italiane, si notano un paio di elementi che sorprendono e fanno riflettere.

Innanzitutto, sembra incredibile che manchi del tutto il senso dell’urgenza: non dell’urgenza legata a scadenze specifiche. Quelle – a dire il vero – ci vengono ricordate ogni giorno. Qui si intende la drammaticità della necessità di agire e fare, di intervenire e porre in essere comportamenti atti ad arginare una veloce deriva che l’osservatore attento coglie nelle sue più pericolose ed estreme conseguenze.

Il secondo elemento che pare mancare nelle analisi di questi giorni è la semplice presa di coscienza di come il settore finanziario e soprattutto le banche commerciali hanno una caratteristica che rende questo comparto unico: tutte vendono tanti, (troppi), variegati servizi accessori che ruotano intorno a un unico asset, preziosissimo e non rigenerabile: la Fiducia. Anche qui bisogna intendersi bene sui termini, soprattutto su concetti così impalpabili e sfuggenti. Fiducia nella banca, fiducia nel sistema intorno cui ruota la banca, fiducia nel sistema di regole che disciplina il settore all’interno del quale si muove la banca stessa

 

Questa non è una banca

 

Alla domanda se comprare un bond senior emesso da una banca di un Paese europeo a un prezzo di 75 sia un buon affare, esiste a nostro avviso una sola risposta corretta: a un prezzo di 75 e un rendimento a scadenza superiore al 12%, l’emittente non è più da considerare una banca.

Questo non vuol dire che non possa potenzialmente essere un buon investimento, ma che stiamo parlando d’altro. Significa che a questi prezzi si è già ampiamente rotto il rapporto fiduciario che fa di una banca quello che è: un contenitore fiduciario che – partendo da questo assunto – può intermediare altri servizi, trasformare scadenze e veicolare il credito.

Non solo: al 12% di rendimento per un senior si è verosimilmente rotta anche l’intera catena fiduciaria, per la quale alle difficoltà di un istituto dovrebbe poter supplire il sistema intorno cui ruota la banca, all’interno di un insieme di regole che, invece di offrire certezze, diventa in questo caso esso stesso generatore d’incertezza: per non implodere, bisogna urgentemente spezzare questo circolo vizioso ammesso che non sia già tropo tardi.

 

Tempesta a Nordest

 

Che la tempesta stesse montando a Nordest, lo si sapeva da tempo. E, a osservatori attenti, non poteva sfuggire la delicatissima situazione.

 

Tutto ciò dopo che una vicenda analoga la si è vista per il Monte Paschi, in un balletto suicida durato mesi. Per un tempo così lungo si possono congelare artificiosamente i titoli sul mercato, ma non la paura. La paura – si badi bene – non dell’investitore, che con quella passione deve convivere in maniera sana, bensì del risparmiatore che con essa non dovrebbe aver nulla a che fare, perché il risparmio è qualcosa che va sempre tutelato e mai minacciato.

La questione si fa ancora più delicata, perché parte del problema riguarda anche risparmio che, in maniera spesso inconsapevole e maliziosamente indirizzato, muta in investimento. Questa, però, è un’altra storia: altrettanto delicata e complessa, ma diversa.

In tutto ciò non possiamo dimenticare che tutte le banche zombie e semizombie, salvate, salvande e/o moriture esistono “fisicamente”: cioè, hanno personale che deve rispondere a domande legittime dei clienti. E quando a queste domande non ci sono risposte, i rubinetti dei depositi liberano un flusso emorragico difficilmente arginabile.

 

Come in un film di fantascienza

 

Date queste premesse, si potrebbe discutere all’infinito sul dettaglio del singolo numero di NPL e shortfall di capitale, sul ruolo del fondo Atlante o sull’interpretazione – più o meno stringente – dell’articolo 32 della BRRD.

Forse, però, è più utile fare un passo avanti e cimentarsi in un esercizio simile a quello che i bravi strategist chiamano “scenario analysis”, magari spingendosi fino al campo di una proiezione futuristica.

In questo film, al posto della consueta pezza un po’ stiracchiata messa all’ultimo momento e che verosimilmente diverrà il finale della storia, le cose vanno diversamente e si finisce per inciampare in qualche intoppo politico-legale-tecnico che fa saltare il banco e manda in bail in una o entrambe le banche in sofferenza.

 

Inevitabilmente si andranno a generare flussi migratori di depositi in fuga, che rappresenterebbero il colpo di grazia per il sistema – già in ginocchio – delle banche regionali e/o locali.

Così come cinque anni fa era fondamentale spezzare il “cattivo pensiero” per cui un euro in Italia era diverso da un euro in Germania, qui si arriverebbe alla mossa suicida di sancire che un euro depositato a Vicenza è diverso di un euro depositato a Siena o di un euro depositato a Verona. Attenzione: continuiamo a parlare di euro depositati e non di euro investiti.

Per dare pienamente conto della trappola perversa che cova in questo grande gioco, molto simile a una malattia autoimmune, dobbiamo ricordare l’estrema ratio dell’introduzione del bail in: ovvero, spezzare il legame tra pubblico e privato evitando che fallimenti privati possano esser tamponati utilizzando soldi pubblici.

La cosa in sé potrebbe avere un senso – anche condivisibile, peraltro – ma a patto che le modalità di implementazione siano tarate con le giuste tempistiche per esser assorbite: al netto dei tecnicismi, la cosà più importante da chiarire è che il bail in può essere immaginabile solo all’interno di un sistema-Paese sufficientemente solido da poter arginare i contraccolpi – micro e macro – di un terremoto locale.

 

Il paradosso beffardo

 

Nel nostro gioco futuristico si annida un beffardo paradosso.

Quando un sistema-Paese non offre la giusta solidità per ammortizzare l’inevitabile contraccolpo, proprio l’implementazione ortodossa di una norma pensata per salvaguardare la res publica potrebbe affondare con un drammatico effetto boomerang la Stato stesso che, a tutela di se stesso, non ha potuto salvare le sue banche.

Queste considerazioni non intendono cancellare le gravissime responsabilità degli amministratori né esorcizzare la patologica commistione tra pubblico e privato che ha portato a questo disastro. Al tempo stesso, sarebbe ingenuo pensare di espiare queste colpe auto-infliggendosi un castigo di cui oggi il sistema Italia rischia davvero di non reggere il peso.

 

Così avremmo buttato cinque anni di “Whatever it takes” e altrettanti di Quantitative easing che peraltro alla fine del 2017 andrà rapidamente rallentando.

L’Italia avrebbe sempre 2 trilioni di debito pubblico, tassi più alti e il risparmio – unico asset di questo folle, bellissimo Paese – potenzialmente in fuga verso l’estero. Vista in maniera asettica e distaccata, non sembra davvero una grande idea, ma del resto –  a guardarla dal di fuori – anche lasciar passare il controllo di un gigante del risparmio in mani estere non è necessariamente la miglior strategia per un Paese schiacciato dal debito pubblico.

Ma di nuovo, tutto questo ragionamento presuppone un sistema-Paese forte, capace di autodeterminare il proprio presente e il proprio futuro: le conseguenze di un bail in su alcune banche a Nordest potrebbero essere nefaste e imprevedibili. NON APRITE QUELLA PORTA e non svegliate un popolo che, nella migliore tradizione di panem et circenses, è tutto assorto in furibonde discussioni sul fallo di mano di De Sciglio.