Dazi Commerciali : la Fine del Mito del Libero Mercato

dazi commerciali

L’arrivo della politica dei dazi introdotti dal Presidente Trump mi porta a guardare oltre, chiedendoci:

“Le nazioni possono crescere solo eliminando le barriere al movimento di beni e capitali, e riducendo al minimo l’intervento dello Stato nell’economia?”

Dobbiamo aspettare per valutare gli effetti dei dazi, tuttavia l’ascesa di Trump ha già raggiunto un obbiettivo, ed è quello di mettere in discussione le tesi del libero scambio e della globalizzazione introdotte e sostenute negli anni ‘80 dal Premio Nobel Milton Friedman (Scuola di Chicago). La fede, quasi dogmatica, nell’efficienza del mercato e nei vantaggi della globalizzazione ha determinato la politica economica americana negli ultimi decenni. Era il 2001, durante la presidenza Clinton, quando la Cina entrò a far parte dell’Organizzazione mondiale del commercio; Pechino colse l’opportunità per il proprio export nel liberismo americano. Da quel momento il sistema commerciale cinese è cresciuto  anche attraverso accordi di sviluppi infrastrutturali con molti paesi asiatici, cercando di allontanare l’Asia dalla influenza americana. Il governo cinese con l’avvio della costruzione della nuova “via della seta” , un investimento di oltre 1000 miliardi di dollari, punta ad assumere il centro negli affari mondiali che partono dall’Asia per arrivare al Medio Oriente attraverso l’Europa e l’Africa. La competizione a tutto campo è giunta anche sul piano finanziario attraverso la Asian Infrastructure Investment Bank (Aiib), in alternativa al Fondo Monetario Internazionale: non ci sono dubbi la Cina si sta proponendo come alternativa agli Stati Uniti nella economia globalizzata.

L’equazione libero mercato uguale progresso non è così scontata, la storia economica dopo il 1945 ci racconta che le grandi potenze economiche (Regno Unito, Stati Uniti, Giappone, Germania, Francia e Cina) hanno applicato politiche economiche protezionistiche seguendo il paradigma che prima bisognava far crescere i settori economici in un ambiente protetto. Si noti come anche ai giorni nostri i paesi esportatori non dispongono automaticamente delle migliori economie. Ad esempio, la Thailandia (+ $ 44 miliardi), la Russia (+ $ 41,5 miliardi) e la Nigeria (+ $ 7,7 miliardi) hanno surplus commerciali, ma non c’è alcuna possibilità che nessuna di esse superi gli Stati Uniti in termini di reddito pro capite. Il deficit commerciale americano di $ 800 miliardi è un problema, ma chiaramente la “salute macroeconomica” del Paese è più complicata di quanto un solo numero possa farci credere. In concreto quando gli Stati Uniti acquistano beni cinesi (importazioni), devono vendere a loro qualcosa in cambio, ad esempio Treasury bills (bilancia dei pagamenti) .

Gli Stati Uniti, in particolare nell’ultimo decennio, hanno attirato un afflusso di investimenti esteri che è servito a sostenere la crescita dell’economia, che a sua volta ha fatto aumentare le importazioni: quale che sia il meccanismo che ne può scaturire (crescita del valore del dollaro oppure inflazione), il risultato certo è una bilancia commerciale in deficit. Proprio quello che è accaduto negli Stati Uniti negli ultimi anni.

Dazi Commerciali

Dopo tre giorni dal suo arrivo alla Casa Bianca, il Presidente Trump ha annunciato il ritiro dal Trattato di libero scambio nel Pacifico (Tpp), accordo commerciale regionale con il Giappone e altri 10 Paesi del Pacifico, la Cina non ne faceva parte. Le 12 nazioni coinvolte sono responsabili del 40% del mercato mondiale.  Il Trattato era stato concepito come un freno alla espansione cinese sul mercato asiatico. Alla luce di queste considerazioni, si può giustificare il ripensamento di Trump in questi ultimi giorni, con la volontà di rientrare nell’accordo Tpp. Comunque è certo che agli americani i consessi del multilateralismo non sono più una priorità. Quasi contemporaneamente, il Presidente americano ha polemizzato contro il Canada, la Corea del Sud e con particolare veemenza con la Germania, accusandole di esportare verso gli Stati Uniti più di quanto importano. Il deficit commerciale degli americani verso la Germania ammonta a 63 miliardi di dollari.

Come leggere queste prese di posizione americane nei confronti dell’Europa e della Cina?

L’amministrazione Trump ha ereditato l’America che non è più il cardine dell’ordine economico globale, quindi bisogna ricostruirsi un ruolo nel nuovo scenario internazionale ripartendo nel capire con chi costruire delle alleanze. Alla nuova amministrazione americana non piace la leadership della Germania nella politica economica europea, incentrata troppo sulle esportazioni e poco nella crescita della domanda attraverso gli investimenti. I dazi sono un piccolo segnale, il clima sta peggiorando, poi non restarà che una “guerra” valutaria, peraltro già in corso, con una moneta cinese (renminbi) che solamente nell’ultimo mese, si è svalutato del 4% rispetto al dollaro. La scelta Brexit degli inglesi è vista come una opportunità per gli Stati Uniti per creare un asse economico anglo-americano sia in Europa sia per i mercati asiatici.

Le due economie asiatica e americana sono legate non solo commercialmente (il deficit commerciale americano con la Cina è pari a circa 370 miliardi di dollari, circa il 50% del totale del deficit commerciale americano), infatti, la Cina, in compenso, detiene oltre il 5% (parliamo di 1.100 miliardi di dollari) di tutto il debito pubblico americano, posizione che si è gradualmente costituita negli ultimi 10 anni in concomitanza della crescita del debito ed in sostituzione del rallentamento della domanda da parte di altri Paesi.

La Cina ha dunque sostenuto (facendo affluire capitali) l’emissione dei titoli di stato americano, nel momento in cui gli Stati Uniti ne avevano probabilmente maggiormente necessità, a partire dalla crisi del 2008, ed è dunque lecito ritenere che uno dei principali rischi per la stabilità economica e finanziaria degli Stati Uniti possa provenire dalla riduzione o l’interruzione delle operazioni di acquisto di Treasuries da parte della autorità di Pechino.

Bastano queste brevi considerazioni per rendersi conto che sia finita l’era del dogma del libero mercato e della globalizzazione, come l’abbiamo vissuta sino ad ora. Certamente i progressi nella globalizzazione hanno portato dei risultati positivi a livello economico, tuttavia il Capitalismo è un sistema intrinsecamente in continua trasformazione e chi resta immobile sui propri schemi è destinato a soccombere. All’ultimo incontro al World Economic Forum, il Presidente Cinese Xi Jinping ha detto: “Non possiamo rientrare in porto ogni volta che incontriamo una tempesta, perché così non raggiungeremo mai l’altra sponda dell’oceano”. Non ci sono dubbi sulla “tempesta” e nemmeno che Trump abbia capito e si sia tuffato in quel mare, tuttavia per raggiungere l’altra sponda bisogna avere una visione lunga. L’economia globalizzata prevede una competizione non solamente tra aree geografiche, non basta raggiungere un migliore equilibrio geografico, bisogna costruire nuove alleanze su valori condivisi e implementare strategie di politica economica coordinate. Basterebbe dire che nulla al mondo si fa senza leader che abbiano una grande passione: per ora questo sentimento non manca a Trump tuttavia come diceva Keynes: ” L’economia è una materia tecnica e difficile ”.