Nel 2015, le tornate elettorali più importanti della scena politica internazionale sono state anticipate da una serie di attentati. Quello che ne consegue è una mera analisi dei dati e non l’ennesima teoria complottistica.
Il caso turco
Turchia, 7 giugno 2015. Nel Paese si vota per eleggere i 550 membri della Grande Assemblea Nazionale Turca (per intenderci l’organo parlamentare unicamerale della Turchia). A contendersi la maggioranza nella 24esima tornata elettorale della storia del Paese sono il Partito per la Giustizia e lo Sviluppo (AKP) del presidente Recep Tayyip Erdogan, il Partito Popolare Repubblicano (CHP) di Kemal Kilicdaroglu, il Partito del Movimento Nazionalista (MHP) guidato da Devlet Bahceli e il Partito Democratico del Popolo (HDP), di Selahattin Demirtas. Queste le forze politiche maggiori scese in campo al termine di una lunga campagna elettorale, volta a rimarcare la necessità di trovare una soluzione alla crisi economica in cui è sprofondato il Paese, alla politica estera da adottare in Siria (dove cresce la minaccia dello Stato Islamico) e alla soluzione dell’annoso conflitto tra governo centrale e ribelli curdi.
I risultati delle urne sono sorprendenti. L’AKP del presidente Erdogan, in carica dal 2002, perde la maggioranza assoluta dei seggi in parlamento. Una sconfitta pesante, vista la necessità di confermarsi prima potenza assoluta del Paese per andare a riformare la costituzione, in modo da dare maggiori poteri al presidente. Al secondo posto si piazza il CHP, con il 24,95% dei voti. Terza forza del Paese è, invece, l’MHP nazionalista, che ottiene 80 seggi a fronte del 16,29% dei consensi ottenuti. Ma la vera sorpresa del turno elettorale è la vittoria dell’HPD, il movimento politico filo-curdo che è riuscito a superare la soglia di sbarramento del 10%, ottenendo anch’esso 80 seggi in parlamento.
Fondamentalmente le prospettive per l’AKP non sono rosee: assodato che la mancanza della maggioranza assoluta vincola e limita le possibilità del parlamento di far approvare la riforma costituzionale, ora per il presidente Erdogan c’è una grana in più: il nemico curdo siede in parlamento, occupando con i propri rappresentanti 80 seggi.
I tentativi di formare un governo di coalizione finiscono con il paralizzare la politica del Paese. Così il presidente Erdogan (leader dell’AKP, il partito politico che ha perso la maggioranza assoluta), dopo il superamento del termine costituzionale dei 45 giorni successivi alle elezioni necessari per formare un governo di coalizione, indice nuove elezioni per il 1 novembre. Nel frattempo, non senza polemiche e rinunce a mandati, è stato creato un governo ad interim, che guida il Paese verso la nuova tornata elettorale.
11 ottobre 2015, ad Ankara, capitale del Paese, va in scena una manifestazione organizzata da sindacati e ong, a cui partecipano diversi partiti d’opposizione. La maggior parte dei partecipanti sono curdi e simpatizzanti per l’HDP. Due Kamikaze si fanno esplodere, causando il più grave attacco terroristico della storia del Paese: 95 le vittime, più di 240 i feriti.
I giornali di tutto il mondo, di fronte all’azione dei due kamikaze, identificano i responsabili come cellule jihadiste. Intanto dallo Stato Islamico non arrivano rivendicazioni. Sul piano mediatico, le forze politiche si danno battaglia: secondo l’AKP le colpe sono da ricercare nel PKK (lo storico Partito dei Lavoratori del Kurdistan fondato da Ocalan sul finire degli Anni ’70 e da sempre in guerra con il governo centrale del Paese; curdo proprio come l’HDP, il partito che ha soffiato i seggi a Erdogan nelle elezioni di giugno), nello Stato Islamico (che però non rivendica il gesto) e nell’estrema destra (il MHP per intenderci, l’altra forza politica che alle elezioni di giugno ha ottenuto 80 seggi). I responsabili secondo Erdogan a questo punto corrispondono a due identikit: lo Stato Islamico (che continua a non rivendicare) o semplicemente chi nelle ultime elezioni si è appropriato dei seggi necessari per riottenere la maggioranza assoluta. Dal lato curdo, i responsabili vengono individuati nelle frange estreme dei servizi segreti, che, secondo l’HDP collaborano con nazionalisti e gruppi jihadisti.
1 novembre 2015. Passano 20 giorni e in Turchia si torna a votare. Quello che succede è prevedibile e scontato: l’AKP riconquista la maggioranza assoluta, ottenendo 317 seggi su 550. A farne le spese sono i due colpevoli indicati da Erdogan nei giorni passati: il MHP, che passa da 80 seggi a 40, e l’HDP, che passa da 80 a 59.