Default Argentina: le Ragioni dietro il Disastro Economico

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Le ragioni del disastro economico argentino di fine anni ’90 primi anni 2000 hanno radici antiche, affondando nella finanziarizzazione dell’economia del paese portata avanti in modo distorto negli anni della dittatura militare (1976-1983) dall’allora ministro dell’economia José Martínez de Hoz, oltre che nella cronica instabilità e debolezza del sistema economico dell’Argentina del XX secolo.

Tuttavia, le cause più immediate del tracollo sono da ricercarsi negli undici anni di presidenza di Carlos Saَúl Menem, alla guida del paese dal 1989 al 1999. Le presidenze di Menem sembrarono portare l’Argentina all’interno dell’ortodossia del Washington Consensus, lanciando una serie di riforme neoliberiste estremamente incisive.

Le barriere protezionistiche per il mercato interno vennero abbattute, il diritto di sciopero venne regolamentato più rigidamente, le misure di sostegno per l’industria vennero revocate esattamente come i controlli sui prezzi, il mercato finanziario venne deregolamentato, e i contratti di lavoro flessibilizzati.

Sul piano della politica estera si segnalano la ripresa di normali relazioni diplomatiche con l’Inghilterra, interrotte a seguito della Guerra delle Falkland del 1983, e un riavvicinamento di Buenos Aires con gli Stati Uniti, che fece parlare di “relazioni carnali” tra i due paesi.

Tra l’agosto e il settembre del 1989 con la Legge per la Riforma dello Stato venne dato il via alla prima ondata di privatizzazioni delle imprese pubbliche, mentre la Legge per l’Emergenza economica cancella con un colpo di spugna i dazi che proteggevano dalla concorrenza il mercato interno.

Le privatizzazioni di tutta l’era Menem vennero condotte, oltre che per aumentare l’efficienza delle imprese privatizzate, per permettere allo Stato di fare cassa e aumentare le sue riserve di valuta straniera. Una delle prime difficoltà a cui Menem dovette far fronte, tipica peraltro dell’economia argentina, fu l’iperinflazione, che riprese nel 1990.

Inizialmente l’intervento del neoinsediato ministro del lavoro Antonio Gonzáles, volto a fermare la fuga di capitali, rifinanziò unilateralmente i titoli in scadenza, lanciando poi il Plan BÓNEX, che prevedeva un consolidamento del debito accompagnato da una serie di misure monetarie e fiscali restrittive. Di fronte al fallimento di una simile iniziativa, l’esecutivo optò per la sostituzione di Gonzáles con Domingo Cavallo nel 1991.

La diagnosi di Cavallo sul sistema economico argentino fu impietosa: l’iperinflazione provocata dalla sfiducia nelle istituzioni, l’organizzazione produttiva con alti livelli di inefficienza e obsolescenza e un sistema fiscale datato e anch’esso inefficiente impedivano sistematicamente lo sviluppo del paese latinoamericano. In particolar modo, risultava penalizzante l’incapacità degli esecutivi di eliminare l’inflazione. Proprio sul campo dell’economia monetaria Domingo Cavallo mise in atto un’audace politica volta a ridare fiducia nella valuta nazionale, agganciando l’Austral al Dollaro americano tramite il Plan Austral.

Tale progetto prevedeva la possibilità di detenere liberamente conti in dollari, al fine di rassicurare gli operatori economici sul fatto che l’esecutivo non avrebbe effettuato svalutazioni competitive, e limitando l’emissione di moneta alla quantità di dollari o di oro che la Banca Centrale argentina possedeva. Questo comportava la rinuncia dell’esecutivo di intervenire nella gestione della politica economica, essendo adesso la spesa dello Stato strettamente connessa con le sue entrate.

Oltre al Plan Austral, nella politica economica di Cavallo va ricordato anche il Piano di Convertibilità, il quale definì un tasso di cambio fisso per il dollaro (con la Banca Centrale che interveniva a ristabilire la parità laddove questa veniva meno), e che la quantità di valuta argentina sarebbe dovuta essere pari alle riserve possedute dalla Banca Centrale.

Inizialmente, tali manovre non mancarono di sortire effetti positivi. Il pil ricominciò a crescere grazie alla domanda in espansione e all’offerta che giovava dei crediti a tasso ridotto, l’industria riprese produttività, dall’estero affluirono diversi capitali, l’inflazione venne abbattuta (vero e proprio unicum nella storia argentina, la cui economia è sempre stata attanagliata da episodi iperinflazionistici) anche grazie al riammodernamento del sistema fiscale, i prezzi si stabilizzarono. Negativo fu invece il saldo commerciale, che divenne passivo a causa della propensione all’import e alla concorrenza straniera nel mercato interno. Inoltre, l’Argentina divenne molto vulnerabile di fronte alle possibili congiunture internazionali negative.

A livello di costi sociali, le politiche di Menem comportarono un allargamento della forbice tra ricchi e poveri con un aumento della popolazione ai limiti della sussistenza, un progressivo aumento della disoccupazione, e gravi difficoltà per le industrie del paese, svantaggiate dalla liberalizzazione del mercato interno e da un tasso di cambio che sopravvaluta notevolmente la valuta locale. Inoltre, la parità peso-dollaro comportò l’uniformazione dei prezzi argentini con quelli statunitensi, senza però che i salari reali fossero gli stessi. Va poi considerato come la convertibilità impedisca la svalutazione competitiva al fine di migliorare il saldo commerciale, costringendo l’esecutivo a deviare parte delle risorse per mantenere il cambio fisso.

Non potendo attuare politiche di espansione monetaria, veniva gravemente inficiata la capacità del governo di mettere in atto misure anti-cicliche che rimettano in moto l’economia in un periodo di crisi. Senza la leva del cambio, rimaneva unicamente quella fiscale, la quale venne però utilizzata con estrema parsimonia.

Rieletto alle presidenziali del 1995, Carlos Menem si trovò di fronte ad una situazione economica che virò al peggio a causa della crisi finanziaria messicana, che costringe il Messico a svalutare il peso del 50%, provocando una caduta del 7% del pil e un aumento della disoccupazione. Buenos Aires non rimase ai ripari dai contraccolpi della crisi messicana, il c.d. effetto tequila coinvolse infatti anche l’Argentina, creando sfiducia sulle capacità effettive dell’esecutivo di mantenere la parità peso-dollaro e provocando un’ondata di panico che si tradusse nel liberarsi, da parte di molti investitori, dei capitali in pesos acquistando ingenti quantità di dollari.

La Banca Centrale, anche grazie a un prestito del FMI, riesce a correre ai ripari per l’ingente quantità di dollari che ha accumulato nel periodo 1991-1994, perdendo però in poco tempo ben 1.500 milioni di dollari. Dall’introduzione del Piano di Convertibilità era la prima volta che l’economia argentina entrava in recessione. Alle elezioni presidenziali del 1999, l’Argentina era già entrata in una grave recessione.

Il neoeletto presidente Fernando de la Rúa si trovò a fronteggiare una situazione difficile sia economicamente che politicamente, non riuscendo a far fronte al deficit (pari al 2.5% del pil) ricevuto in eredità dall’amministrazione precedente, e non riuscendo a uscire dalla recessione.

Nel 2001, a fronte di una situazione in rapido deterioramento, il presidente richiamò Domingo Cavallo, che ottenne ampi poteri al fine di traghettare il paese fuori dalla recessione. Data l’impossibilità di emettere moneta per la convertibilità, per finanziare la spesa pubblica era possibile o indebitarsi sul mercato finanziario oppure utilizzare la leva fiscale, e Cavallo optò per la seconda opzione anche a causa dell’aumento del differenziale di rendimento (spread) che il mercato finanziario chiedeva per investire nei titoli argentini.

Nonostante le manovre di Cavallo, la fiducia nell’esecutivo era in caduta libera, gli investitori ritiravano i capitali e lo spread raggiunse il valore di 1.500 punti a luglio, che a novembre salì fino a 2.500. Un tale livello portò l’Argentina in un vicolo cieco, dato che avrebbe dovuto assicurare un rendimento almeno del 30%, cosa impossibile dato che avrebbe richiesto un surplus fiscale pari al 15% del pil. Nel frattempo, il ritiro di depositi dalle banche era quantificato a un milione di dollari al giorno, facendo paventare l’esaurimento delle scorte monetarie in valuta pregiata. Per far fronte a questa problematica l’esecutivo limitò il prelievo settimanale a 250 dollari, suscitando grosse proteste di piazza. A dicembre il FMI negò a Cavallo un ulteriore prestito.

La situazione era ormai al collasso, e le agitazioni della popolazione furono tali da causare trenta vittime. De la Rúa e il suo governo si dimisero in blocco, e il Congresso elesse presidente Adolfo Rodríguez Saá, governatore di San Luis, che dichiarò unilateralmente il default sul debito con gli investitori stranieri, esclusi però gli organismi internazionali.

Due settimane dopo, Rodríguez Saá rassegna le sue dimissioni. Spetterà ai suoi successori mettere mano al disastro argentino per risollevare il paese dal baratro in cui era sprofondato.