“Believe me, if I become President, oh do they have problems”. Questa la minacciosa profezia con cui Donald Trump si pronunciava lo scorso febbraio. “They” chi? Niente immigrati clandestini, confinanti messicani o esportatori cinesi. No, la frecciata è diretta al businessman Jeff Bezos e più in generale alla sua Amazon, che secondo il tycoon opera da sempre in un immeritato regime di monopolio beneficiando di un ancor meno giustificato scudo fiscale.
Una tale acrimonia trova spiegazione nel fatto che Bezos possieda, oltre ad Amazon, anche il Washington Post, acquistato nel 2013 dalla famiglia Graham per 250 milioni di dollari. È stato proprio il Washington Post ad assoldare, durante la campagna elettorale statunitense, una ventina di reporter affinché indagassero i più oscuri meandri della vita personale e professionale di Trump. Fatiche che sono culminate in un’opera-inchiesta dal titolo Trump Revealed (neanche a dirlo, acquistabile su Amazon), confermando il più che palese orientamento politico di Bezos, che lo scorso dicembre si era premurato di riservare un posto per Trump sulla navicella Blue Origin. Augurandogli un lancio nello spazio più che verso la Casa Bianca.
Le minacce del neoeletto Presidente sembrano non sortire alcun effetto intimidatorio sul fondatore di Amazon. Sarà perché sostanzialmente prive di fondamento logico: non è difficile provare che le manovre di politica economica annunciate da Trump difficilmente avranno ripercussioni sul colosso dell’e-commerce.
A partire dalle tasse. Trump ha elaborato una curiosa teoria secondo cui Bezos, in aggiunta all’influenza politica esercitata contro di lui tramite il Post (che ok, non è un’accusa del tutto infondata), utilizzi i profitti negativi della storica testata per dedurre le tasse dovute da Amazon. Il punto è che Bezos ha acquistato il giornale oltre 16 anni dopo la quotazione in Borsa del gigante del retail. Sedici anni durante i quali, storicamente, Amazon ha sempre registrato profitti molto bassi (se non perdite), avendo a disposizione una cassa di soli 14 miliardi di dollari, cifra risibile rispetto ad altre aziende di dimensioni simili. Oltre a ciò, nel 2015 Amazon ha versato 273 milioni di tasse, derivanti dalle aliquote applicate nei 29 stati citati dal regolamento d’azienda. È anche per questo che la manovra fiscale annunciata da Trump potrebbe persino favorire Amazon: con il meccanismo della flat tax, l’aliquota applicata alle imprese scenderebbe dal 35% al 15%, mentre il tasso da corrispondere sul fatturato prodotto all’estero calerebbe dal 30% al 10%.
Per non parlare dell’“enorme problema di Antitrust” che secondo il tycoon affliggerebbe il colosso dell’e-commerce. Che sì, è un colosso, ma che detiene una quota di mercato del 20% nel settore americano del retail e del 15% in quello delle vendite online. Quote significative, certo, ma ben lontane dal rappresentare un monopolio. Così come ben lontano è Trump dal poterlo dimostrare davanti a una commissione: se il compito dell’Antitrust è quello di proteggere i consumatori da prezzi eccessivamente elevati, causati dalla mancanza di competizione, ad Amazon va riconosciuto il merito di averla, al contrario, sempre stimolata: ha proposto prezzi bassi, applicato sconti significativi e organizzato intere giornate di svendita. E nulla, nella sua storia passata e recente, lascia presagire un imminente cambio di rotta.
Sì, ci sono un paio di manovre con cui The Donald potrebbe infastidire Jeff Bezos. Amazon si avvale di ingegneri e sviluppatori provenienti da tutto il mondo: le proposte di Trump sull’immigrazione potrebbero disincentivare chi si candida per la Visa H-1B (il visto che autorizza i datori di lavoro statunitensi ad assumere temporaneamente dipendenti stranieri specializzati), o persino rendere gli States un luogo meno attraente in cui lavorare. Dall’altro lato c’è l’attività commerciale, che genera il 70% del fatturato di Amazon e che si basa fortemente sul libero scambio e sulla libera circolazione di beni e servizi. E che quindi potrebbe risentire della concretizzazione di alcune delle idee di Trump, dai fantomatici dazi del 45% sui prodotti importati dalla Cina a qualsiasi altro tipo di barriera commerciale.
È anche vero, però, che la metà dei provvedimenti annunciati durante la campagna elettorale dal neoeletto Presidente rientra in un intervallo che va da “poco realistica” a “del tutto irrealizzabile”. Soprattutto, gli analisti concordano sul fatto che l’elezione di Trump non impatterà il business di Amazon, né tantomeno la fiducia che gli investitori ripongono in esso: al picco negativo che il 14 novembre ha abbassato il prezzo dei titoli a 719,07 dollari l’uno è seguita una significativa ripresa, che ha riportato il capitale sociale nell’empireo dei 780 dollari ad azione. “Rimaniamo convinti acquirenti delle azioni Amazon, dato il crescente passaggio del retail dalle vendite fisiche all’online, la validità del suo core business e la profittabilità del segmento cloud” ha affermato Neil Doshi, analista a Mizuho. Cui fa eco Roger McNamee, storico investitore nel settore tech: “Vedo Amazon come una forza democratica dell’economia moderna, sia nel retail che nel software, è l’unica azione che ho acquistato dalle elezioni. Amazon prospererà in ogni scenario: anche nel caso di estrema contrazione economica, sarà una delle poche a rimanere in piedi”.