C’è un denominatore comune nei brani che scalano le classifiche fino a piazzarsi ai primi posti. Un elemento vincente. Coincide con la categoria di musicisti di cui, volutamente o no, ci si dimentica più facilmente nella fase di ascolto finale di un brano. Si tratta del coro.
Sorprendentemente, è quanto dimostra lo studio realizzato in via congiunta dal professor Andrea Ordanini, dipartimento di Marketing dell’Università Bocconi, e Joseph Nunes, Univeristy of Southern California. I due hanno analizzato 2500 canzoni pescate tra quelle degli ultimi 55 anni. Hanno scandagliato in particolare la strumentazione usata e l’apporto che questa fornisce al completamento di una canzone. I dati risultanti sono stati incrociati con quelli relativi alle 1029 canzoni della Billboard Hot 100 nel periodo 1958 – 2012 e le 1451 canzoni che non sono rientrate tra le prime 10. La parte pratica è stata affidata alle orecchie esperte degli studenti dottorandi in musicologia della Usc, cui è stato dato anche il compito di enumerare e codificare i tipi di strumenti e i cori effettivamente percepiti nell’ascolto.
Il risultato lo conoscete già. La divisione è stata operata seguendo uno schema di tipo “coro/sintetizzatore/chitarra pura” e “coro/sintetizzatore/chitarra distorta”, proprio perché questo è il modello applicabile alla maggior parte delle canzoni rientranti delle top hit. Per fare un esempio noto, la formula è risultata presente in tutti i più grandi successi di Michael Jackson, da Billie Jean a Bad. Le configurazioni per i pezzi posti in fondo alle liste erano tre: chitarra acustica, pianoforte acustico e nessuna stringa; chitarra pura e pianoforte acustico e basso; sintetizzatore e niente pianoforte elettronico. Questo è quanto successo, ad esempio, durante l’ascolto di Nothing really matters di Madonna. Insomma, l’accompagnamento vocale risulta una costante nei brani di successo.
A cosa è dovuto veramente il successo del coro, lo spiega con una sua interpretazione proprio Ordanini:”la presenza di coristi aiuta a definire il ‘timbro vocale‘ e facilita la ripetizione delle parti più orecchiabili della canzone”. Diversa è la questione dal punto di vista degli altri strumenti. Mediamente un gruppo che suona ne annovera dai 3 ai 5 ma lo stesso studio rivela che le posizioni di successo cambiano in base all’utilizzo di più o meno strumenti. Nel tempo però, le preferenze di quella che in gergo tecnico è detta “densità” musicale sono cambiate molto: fino a metà anni ’70 si apprezzava la purezza e semplicità dei suoni, che naturalmente non richiedevano un grande complesso di strumenti. Da lì in poi la tendenza si è invertita, venendo ad essere molto apprezzati virtuosismi particolari e complessità notevoli. Questo almeno fino agli anni 2000. Attualmente c’è una significativa riscoperta di una purezza sonora, in realtà difficile da ricreare e apprezzare con gran parte dei dispositivi sul mercato. Continua Ordanini:”Il consumatore sembra dunque premiare le canzoni con una struttura strumentale semplice o sofisticata, e caratterizzate da specifiche configurazioni strumentali nelle quali spicca il ruolo giocato dal coro”. Morale della storia, vi piacciano o no le band con membri numerosi, se volete davvero vincere premi formate un coro.
Naturalmente, al di là delle battute, il coro non può essere l’unica variabile da prendere in considerazione per determinare il successo di un artista, si intende. Questo lo spiegano direttamente relatori nel loro studio. Le opportunità, anche dal punto di vista mediatico e commerciale, giocano un ruolo fondamentale. Il dato “corale” resta, ovviamente molto significativo. Anzi, c’è da chiedersi se lo vedremo direttamente applicato alla prossima edizione di Sanremo, in partenza proprio oggi. Nel 2013 addirittura il coro dell’Armata Rossa si presentò in scena per duettare con Toto Cutugno. Per quest’anno nulla è dato sapere, magari vedremo un’altra sorpresa canora. “Se la strumento non è tocco, non si sa che voce abbia” recita un proverbio popolare. Per fortuna in un coro di voci ce ne sono molte.