Rust Cohle, l’Antieroe Lovecraftiano di True Detective

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Tanto dotato quanto tormentato e problematico, il detective Rustin ‘Rust’ Cohle, protagonista della prima stagione della serie televisiva True Detective, non lesina su nessuna di quelle caratteristiche che fanno di lui un vero e proprio antieroe: cinico, irriverente, solitario, sprezzante dell’etichetta a cui la società impone di attenersi e dotato di un senso critico corrosivo e a tratti parossistico, il personaggio creato da Nic Pizzolatto risalta per il suo nichilismo ed il suo pessimismo fin dai suoi primi dialoghi con il collega Martin ‘Marty’ Hart, che invece è il suo esatto opposto: pragmatico, poco incline alla riflessione (con risultati talvolta disastrosi) e tutto sommato ben inserito nel contesto sociale in cui si trova a vivere. La prima conversazione tra i due infatti mostra lo stridente contrasto tra un Rust che non esita ad affermare come “io credo che la cosa più onorevole per la nostra specie sia rifiutare la programmazione, smetterla di riprodurci, procedere mano nella mano verso l’estinzione. Un’ultima mezzanotte in cui fratelli e sorelle rinunciano ad un trattamento iniquo” ed un Marty che nel suo pragmatismo si mostra piuttosto irritato da considerazioni del genere, che probabilmente neppure comprende fino in fondo. I due personaggi, tra violenti scorni e riconciliazioni, finiranno per formare una coppia di opposti che, malgrado tutto, tenderà ad un involontario migliorarsi a vicenda.

Piena di riferimenti e citazioni di scrittori che sono vere e proprie pietre miliari della letteratura dell’orrore (quali il re giallo tratto dall’omonimo romanzo di Robert Chambers e la città di Carcosa presa da Ambrose Bierce e ancora da Chambers), il personaggio di Rust sembra essere ricalcato almeno in parte da quello dello scrittore horror statunitense Howard Philipps Lovecraft. Con Lovecraft condivide infatti un senso di radicale e soffocante estraneità dal mondo che lo circonda, la critica della religione vista come un inganno antiscientifico per uomini deboli che serve unicamente a non voler affrontare la dura realtà, e soprattutto il sentirsi inevitabilmente trapassati dall’assoluta insensatezza di ogni azione umana: ci siamo evoluti per caso da una materia che è composta da particelle che si compongono e scompongono all’infinito, come specie abbiamo raggiunto la consapevolezza di noi stessi e la conseguente tristezza causata dal rendersi conto della nostra finitezza, e così si è giunti alla conclusione che tutto essendo nato dal nulla tornerà nel nulla, la nostra persona, i nostri affetti e le nostre azioni sono quindi privi di senso in quanto destinate alla scomparsa. E, sia in Lovecraft che in Rust, se non ha senso la vita neppure la morte ne ha uno, non concilia, non conclude, non offre una chiave di lettura all’avventura umana che non sia ulteriore sofferenza insensata e gratuita, il tutto, nel caso di Rust, nella dolorosa cornice del lutto mai completamente elaborato causato dalla tragica perdita di sua figlia ancora bambina, quasi che questo rassegnato nichilismo e pessimismo cosmico altro non siano se non una sorta di reazione protettiva di una mente eccelsa e di una cultura vastissima di fronte ad una simile tragedia. Entrambi condividono inoltre la convinzione che ci sia la possibilità di squarciare il velo di Maya che copre le nostre esistenze e vedere oltre, in Lovecraft questo avviene quando i suoi protagonisti volontariamente riescono ad accedere alla realtà più profonda e nascosta, in Rust per mezzo di visioni che non sono però un prodotto della sua volontà (“Quando avevo quelle visioni la maggior parte delle volte pensavo di essere matto, ma c’erano altre volte in cui pensavo di riuscire a svelare la realtà segreta dell’universo”). La differenza però è che se Rust in queste visioni non prova altro se non una vaga curiosità e, suppongo, un inconscio desiderio di comprenderle fino in fondo, nell’universo partorito da Lovecraft la variabile indipendente è l’orrore infinito (solitamente seguito dalla fine orribile del protagonista) che si trovano davanti quegli sventurati che, mossi dalla curiosità del ricercatore, squarciano il velo di Maya per accedere ad una realtà più profonda che si rivela mostruosa.

E vi sono anche altre differenze. Se infatti la reazione disgustata di Lovecraft verso il mondo che lo circonda è quella tipica di un uomo rimasto legato a valori e stili di vita nettamente pre-industriali, spaventato ed atterrito di fronte a quella società industriale da lui vista come un Moloch che avrebbe divorato il suo mondo (e da qui discendono le note reazionarie del pensiero politico di Lovecraft), il disgusto di Rust, per quanto altrettanto ragionato e fondato su solide basi intellettuali, sembra edificarsi maggiormente sul proprio vissuto personale coniugato su una personalità estremamente ricca e complessa, rispetto che sulla nostalgia di un’epoca passata.

E nonostante le innegabili affinità, il pessimismo cosmico di Rust Cohle non sembra però riguardare tutto l’arco del personaggio dipinto da Pizzolatto in True Detective: nel toccante dialogo finale con Marty, uno spiraglio di luce squarcia le tenebre di un’esistenza segnata dal lutto e dall’apparente non senso: partendo con l’accettare la sua ferita ancora aperta per la perdita della bambina in quel pianto liberatorio di fronte ad un Marty che invece era ben a conoscenza del lato ferito di Rust, arriva fino a pronunciare quel sorprendente “Una volta c’era solo l’oscurità. Se me lo chiedessi, ti direi che la luce sta vincendo” che sembra sottintendere come, nonostante tutto, il desiderio più profondo di Rust non fosse altro che quello di incontrare qualcuno in grado di dimostrargli come, in fondo, si sbagliasse.