Dove nascondere la telecamera? Nell’occhio: diventare una telecamera e registrare tutto ciò che vediamo, o che altri vedono attraverso i nostri occhi, ora è possibile. Il Dragon Film Festival di Firenze ha illustrato le dinamiche di questa possibilità con la proiezione esclusiva di Camera, techno thriller vincitore del prestigioso Puchon Award e già presentato in occasione di importanti festival internazionali, come il Chicago International Film Festival (ottobre 2014), ma che ha ancora problemi di distribuzione nella Repubblica Popolare Cinese: la sceneggiatura è stata censurata e ne è stata proibita la traduzione integrale in cinese mandarino, lingua ufficiale del paese. D’altra parte, i prodotti Apple sono designed in California ma fabbricati in Cina, perché la manodopera costa meno. Oggi si può facilmente acquistare il modello all’ultimo grido di un microdrone telecomandato, da lanciare in aria per spiare azioni e parole di vite che non ci appartengono. Un panoptismo social ormai diventato business dozzinale: il Parrot AR.Drone 2.0 Power Edition Wi-FI Quadricopter costa solo 299$ – ‘Cattura foto e incredibili filmati strimmati e registrati direttamente sul tuo smartphone utilizzando la telecamera HD 720p integrata’, recita la pubblicità.
L’attore protagonista Sean Li, sul palco dell’Odeon, spiega: ‘Today, becoming a camera to record everything is a concrete possibility. The movie is settled in Hong Kong during the year 2030, however our goal wasn’t simply that to describe a dystopian scenario or experiment, but a looming science fact’ – ossia, un fenomeno scientifico già in atto – ‘In our city’ continua Sean Li ‘besides the widespread CCTV system, it’s very common to buy a flying drone in a shop so as to observe and record whatever happens in the street or among and inside the buildings: it’s already a sort of everyday life custom for the people living there’.
Camera è un film che di fantascientifico ha solo l’etichetta. Infatti, quella che il regista James Leong (di Singapore ma di origini britanniche) traspone sul grande schermo non è una sci-fiction, bensì una realtà tecnologica contemporanea che si sta diffondendo su scala globale. Sean Li interpreta Ming, specialista della sorveglianza che filma tutto ciò che gli accade. Si tratta di un impulso legato a un incidente che l’ha reso cieco da un occhio: il destro, proprio quello sui cui Sergey Brin ha spremuto tutto il suo ingegno per realizzare il miniproiettore dei Google Glass.
Quando Ming scopre che una nuova e avanzata tecnologia è in grado di guarire la sua vista, si sottopone a un intervento chirurgico per farsi impiantare una telecamera al posto dell’occhio difettoso. Assunto da un nuovo cliente per seguire sua figlia, Ming si rende presto conto delle potenzialità che l’innesto artificiale garantisce alla registrazione dei fatti. Le immagini che registra possono essere replicate su qualsiasi schermo, purché ci sia una connessione WI-FI; la vita così documentata si può riavvolgere, stoppare o mandare avanti in modo da preservare e amplificare all’infinito i dettagli che sarebbero sfuggiti a una memoria visiva troppo umana; il suo nervo ottico è collegato a un database invisibile, a un principio di immortalità del visibile.
Ming ha un incubo ricorrente: una piccola spiaggia su cui scrosciano le onde e lui, bambino, su una branda d’ospedale, sottratto all’oscurità da luci artificiali simili a quelle di un set cinematografico; un uomo vestito di bianco che sostiene una flebo, un altro che gli avvicina i ferri all’occhio destro, un altro ancora su una duna, in alto, con una telecamera in spalla, che sta filmando tutto; l’ectoplasma del padre poco distante sparisce nella schiuma del mare. Procedendo nelle sue ricerche, Ming comincia a sovrapporre il sogno alla verità di un ricordo che è stato rimosso per una ragione precisa, come con un colpo di bisturi. Ming non ha perso la vista in seguito a un incidente. Un team di chirurghi svolgeva sperimentazioni sull’occhio per conto del governo usando come cavie un gruppo di bambini orfani o rapiti, per farne delle telecamere camuffate da essere umano controllabili a distanza. Ming era uno di quei bambini. Il diario che credeva essergli stato lasciato in eredità dal padre, contenente calcoli e disegni relativi al progetto di inserzione della telecamera nell’orbita oculare, non era altro che un’esca pensata affinché un giorno, di sua volontà, tornasse a bussare alla porta dei suoi seviziatori, per completare l’esperimento fallito in passato.
Ming nel frattempo si innamora della ragazza che pedinava e scopre che il presunto padre di lei, candidato alle elezioni presidenziali, ha lo stesso tatuaggio che nel sogno uno dei medici mostra di avere sul polso. A questo punto gli eventi precipitano perché ciò che scopre Ming, lo scopre anche il chirurgo tatuato: il suo occhio artificiale è infatti un’estroflessione dell’occhio del governo, con tanto di GPS integrato. Ming si strappa l’occhio e fugge con l’amata su una zattera rimediata non si sa bene come. È giorno, ma il mare in cui naufragano, oltre a non essere dolce, non è meno irreale di quello avvolto nel buio del sogno. Ming guarda con disperazione il viso della ragazza stesa sul legno sotto il suo sguardo da ciclope: sulla cornea dell’occhio destro di lei balena uno strano riflesso, quello di una telecamera.
Camera, nonostante alcune sbavature nella sceneggiatura e nel montaggio, è l’opera prima di un regista stilisticamente molto promettente. James Leong riesce a interpretare in chiave contemporanea un tema spesso sciattamente abusato, il Grande Fratello orwelliano, attraverso scelte estetiche coraggiose ma sobrie, mescolando generi diversi: thriller, noir, horror, fantastico e cyberpunk. Giocando ambiguamente con occhi e telecamere che si specchiano a vicenda, il regista mette in crisi lo spettatore, che a un certo punto non sa più chi guarda chi, né a quale parte dello schermo affidarsi. Grazie a questo effetto ottico, lo spettatore esperisce fisicamente la scissione tra sogno e ricordo, la linea sottile che separa l’assoluto dal nulla, la realtà vissuta dalla realtà registrata: i suoi occhi guardano lo schermo, che rappresenta gli occhi di Ming, di cui uno però è una telecamera, che a sua volta è parzialmente controllata da altri. Lo schermo si scinde in due dimensioni: nella parte destra l’immagine a volte è disturbata o fuori fuoco (proprio come accade con una telecamera), mentre nella parte sinistra l’immagine è più naturale, ma anche più debole, più suscettibile al dubbio. Il velo di Maya si sdoppia sullo schermo.